Africa Centrale: verso la Black Belt Road jihadista – by Marco Lombardi

Gli attacchi in Sri Lanka sono solo un momento del processo evolutivo rapido, cominciato poco prima e ancora in corso, che sta ri-conformando le organizzazioni del terrorismo islamista. Il video di Al-Baghdadi è un altro tassello.

E infatti, forse, il video di Al-Baghdadi, lunedì, ha sorpreso un po’ tutti: il Califfo non è mai stato un presenzialista televisivo e le sue comparsate sono sporadiche. Ma sempre puntuali, come quest’ultima: servono a testimoniare la sua esistenza in vita, a riaffermare la sua leadership, a ridare spirito e consistenza al richiamo della jihad. Lunedì poi il timing è stato perfetto, collocando la comunicazione nel dipanarsi di una storia drammatica i cui eventi punteggiano queste settimane. Infatti, la parte più interessante di quanto accaduto in questi giorni è quella meno appariscente: quella che non si trova nella manifestazione e rappresentazione degli eventi ma nella relazione tra gli eventi. In queste ultime settimane stiamo assistendo a una serie di fatti che stanno ridisegnando il conflitto in corso del quale fa parte anche il terrorismo islamista. Sto facendo riferimento, come potete immaginare, agli attentati in Sri Lanka e al loro lungo processo di rivendicazione a puntate, alla grande rete islamista passata inosservata e alla scelta originale di quel Pase “periferico”. Ma a tutto ciò si aggiungono gli attentati sventati in questi ultimi giorni in diversi paesi, la conferma della penetrazione diffusa di “Daesh” in un’Africa diversa da quella fin qui attesa, il richiamo al giuramento di fedeltà per il Califfo dei diversi gruppi e gli attacchi sottotono in Bangladesh, ma subito rivendicati. Per finire con la ricomparsa di Al Baghdadi simil Osama o Zarkawi, ma più un manager che maneggia le cartelline azzurre della documentazione delle differenti wilayat (province, alcune delle quali ancora non conosciute) del Califfato che si vuole affermare essere vivo e vegeto. E combattente.

Siamo di fronte a una catena di eventi, a un processo, con il quale il terrorismo jihadista si conferma attivo e pericoloso, perché progettuale e non casuale.

La comprensione dello scenario è il senso da cogliere nel puzzle dinamico che dobbiamo ricostruire al fine di valutare la minaccia, per evitare di essere nuovamente sorpresi da un terrorismo che cambia molto più rapidamente delle nostre capacità difesa: proviamoci.

Nel suo discorso, il Califfo ricorda una lunga sequenza di nomi, a cui spesso solo lui è in grado di associare dei volti, e sottolinea il giuramento di fedeltà che a Daesh lega molte formazioni territoriali: le province o wilayat. Con particolare insistenza sull’Africa Centrale.

Prendiamo solo questi due spunti del suo discorso.

Il giuramento di fedeltà ha organizzato le attività diplomatiche del Califfato fin dalla sua nascita: Al-Baghdadi ha con insistenza cercato dal novembre 2014 la fedeltà dei gruppi sparsi per il mondo. Prima con difficoltà, poi con più successo soprattutto dopo l’adesione del Korasan. Ha così realizzato quel Califfato transnazionale presente in oltre quaranta Paesi, con il centro in Siraq da cui la strategia sempre perseguita del “consolidati ed espanditi”.

Oggi, praticamente cancellato dal territorio, riconferma le alleanze, che comunque permettono la vitalità dell’impresa attraverso l’impatto reale del mondo virtuale della comunicazione, soprattutto con l’obiettivo di riappropriarsi di una geografica mappabile sulle carte dell’Africa Centrale.

L’Africa Centrale, il secondo spunto, è la nuova area di insediamento e sviluppo attraverso una strategia che sta portando il Califfo a poter dichiarare di avere uno sbocco sull’Oceano Indiano e un altro, presto, sull’Oceano Atlantico. Daesh aveva annunciato la formazione della nuova provincia dell’Africa Centrale solo il 18 aprile di quest’anno, successivamente alla rivendicazione della agenzia Amaq del primo attacco nella Repubblica Democratica del Congo. Nel suo discorso di poco fa, Baghdadi fa una dichiarazione importante quando si congratula con i “nostri fratelli in Burkina Faso e Mali, per essersi uniti al convoglio del Califfato. Che Allah li protegga e con loro nostro fratello Abu Walid al-Sahrawi, a cui raccomandiamo di intensificare i loro attacchi contro i crociati Francesi e i loro alleati“. Con questa dichiarazione il Califfo salda un debito con Abu Walid al-Sahrawi, comandante del Grande Sahara (Islamic State in Greater Sahara – ISGS), che aveva visto riconosciuto il suo giuramento attraverso Amaq (l’agenzia di stampa ufficiale dello Stato Islamico) ma non direttamente dalla voce del capo supremo. Ora anche lui ha il suo imprimatur. Tutto ciò è interessante perché Abu Walid al-Sahrawi, sahariano del Polisario, passato per Al Qaeda nel Maghreb (AQIM), si incrocia come vicecomandante di Mokhtar Belmokhtar, un bandito e contrabbandiere prima che islamista terrorista, a capo del gruppo al-Murabitun. La sterzata pro ISIS di Abu Walid nel 2015 spacca il gruppo ma la sua offerta di fedeltà al Califfo resta un po’ “in sospeso” fino a ieri. Ancora oggi questo sfondo di sovrapposizione AQ/IS sembra produrre un’ombra non completamente dissolta: se Sahrawi ha l’onore di essere citato per nome nel discorso del Califfo, tuttavia il suo ISGS non è esplicitamente dichiarato wilaya, forse perché ha ancora da scontare i rapporti con la Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin’ (JNIM) qaedista.

Qui si apre una questione problematica che può valere l’intera strategia di penetrazione africana di Daesh: il legame, per ora penalizzante in termini di purezza ideale per il Califfo, tra ISGS e JNIM (IS – AQ) si basa sulla loro “compatibilità organizzativa funzionale” ai traffici trans sahariani che lucrano sul traffico di uomini, droga, armi, medicinali che continuano a gestire in nome delle vecchie alleanze: si tratta di molti soldi. Il riconoscimento di Abu Walid al-Sahrawi potrebbe anche portare in eredità buona parte di questi lucrosi traffici, a vantaggio di Al-Baghdadi, ma anche potrebbe anticipare la trasformazione formale in wilaya del suo gruppo, istituzionalizzando così il controllo del banditismo dell’area nelle sue mani. Insomma, potrebbe convenire a entrambi un reciproco riconoscimento formale.

Tutto questo ha senso nello scenario complesso del puzzle che concatena tra loro gli eventi.

L’oggetto importante del discorso di Al Baghdadi non è l’attacco in Sri Lanka (21 aprile), il cui commento è infatti attaccato dopo la realizzazione del video che si colloca tra la fine di Baghuz (fine marzo) e la nascita della provincia dell’Africa Centrale (18 aprile), ma è l’esplicitazione di una strategia che organizza l’Africa Centrale come luogo di ri-consolidamento del futuro Daesh in probabile espansione verso l’Asia.

Con il richiamo al giuramento di alleanza e l’insistenza sull’Africa Centrale, Al Baghdadi, col suo discorso, posiziona formalmente nel Risiko africano un nuovo tassello a occidente e rinforza la sua strategia di penetrazione nel continente: si tratta per ora di una scommessa. Infatti, il jihadismo africano, caratterizzato da componenti molto territoriali e auto-centrate, è stato finora per Daesh un’occasione di espansione a basso costo, riconoscendo wilaya sulla base di dichiarazioni di affiliazione ma senza significativamente incidere sulla gestione locale: ora la questione è diversa: l’Africa diventa la nuova location di rilancio del “consolidamento ed espansione”, dall’Africa per l’Asia!

E allora il messaggio è chiaro nel video di lunedì: Daesh in Africa può fare confluire quel che resta dei suoi uomini (dei quali nessuno “torna” ma tutti si “disperdono”!) per il rilancio del jihad globale, qui rappresentato soprattutto dai francesi, e può offrire una rete di garanzia alla stabilizzazione di traffici e trafficanti, collocandosi in una fascia centrale che collega Oceano Indiano e Oceano Atlantico, realizzando la Black Belt Road jihadista, per ora già una pista senza interruzione dal Mali alle coste del Corno, dalle quali scalcagnati dhow, di varia foggia e dimensioni, facilmente arrivano in India e Sri Lanka.

Il Califfo lunedì ha ripreso il suo ruolo di indirizzo politico – non solo quello di buon venditore di ideali distorti per il reclutamento – rilanciando un ampio progetto strategico di penetrazione del terrorismo jihadista in un’area debole del pianeta, potenzialmente molto sensibile a questa offerta, geopoliticamente cruciale, drammaticamente vulnerabile anche per la nostra scarsa conoscenza e disinteresse per i paesi in cui prende piede questa azione “sotto tono”.

Se così fosse, sarebbe per noi ancora una volta troppo tardi per porre rimedio.