Anche Daesh in crisi: tagli agli stipendi dei combattenti – by Andrea Garnero

Il mercato nero del petrolio, dei beni archeologici, le donazioni e i risarcimenti dei riscatti hanno portato nelle casse dello Stato islamico dal 2011 a oggi miliardi di dollari. Ma i continui raid sui pozzi hanno costretto i tesorieri a dimezzare i salari dei 350 mila miliziani.

Il mercato nero del petrolio, dei beni archeologici, le donazioni e i rapimenti non bastano più. Anche l’Isis soffre la crisi economica. Secondo quanto raccontato il 19 gennaio dal quotidiano britannico The Indipendent, il gruppo jihadista ha annunciato di aver dimezzato gli stipendi dei suoi circa 350 mila combattenti (http://www.lettera43.it/capire-notizie/isis-quanti-sono-i-combattenti-di-al-baghdadi_43675159831.htm) dopo la riduzione dei proventi petroliferi causati dal danneggiamento dei pozzi nell’Est della Siria e la distruzione di una filiale della Banca centrale dello Stato islamico nel Nord dell’Iraq.
Nel documento proveniente dal Direttorato delle finanze dell’Isis a Raqqa, roccaforte jihadista nel Nord della Siria, datato Safar 1437 secondo il calendario islamico e corrispondente a novembre-dicembre 2015, si afferma che «considerando la situazione eccezionale in cui si trova lo Stato islamico, è stato deciso di ridurre della metà i salari pagati a tutti i combattenti». Una decisione «che non prevede esenzione per nessuno, quale che sia la sua posizione». I tesorieri hanno assicurato comunque che gli stipendi saranno distribuiti come sempre due volte al mese.
Fino a pochi mesi fa, prima della riduzione delle paghe, un combattente locale di medio livello guadagnava 350 dollari al mese. Mille invece per i mujahidin perché occupavano posizioni più elevate. Era previsto inoltre un “assegno familiare” per ogni combattente secondo il numero di mogli (la poligamia è legittima) e di figli a carico.
Secondo gli osservatori occidentali e medio-orientali a pesare sull’economia dello Stato islamico sono soprattutto gli incessanti raid americani, russi, britannici e francesi (seguiti agli attentati di Parigi del 13 novembre 2015) sui pozzi di petrolio nella Siria orientale. Prima del 2012 (inizio della guerra civile) la Siria era, infatti, uno dei più grandi produttori d’energia. Con i suoi 130 pozzi di oro nero dislocati nella parte Nord-Est del Paese e i giacimenti di gas per 284 miliardi di metri cubi, le sue esportazioni di greggio erano floride. Oltre che all’ampliamento dell’Arab Gas Pipeline, che porta gas dall’Egitto alla Turchia passando da Giordania, Libano e Siria, il governo di Damasco aveva stretto accordi con Iran e Iraq per la costruzione di gasdotti e oleodotti con origine nell’Azerbaijan, nel Caucaso meridionale, il che avrebbe fatto della Siria il più importante corridoio energetico della regione.

Le cose sono però cambiante da quando i miliziani dell’Isis si sono impossessati del 70% del territorio. I documenti rivelati dal Financial Times nell’ottobre 2015 (http://www.ft.com/cms/s/2/b8234932-719b-11e5-ad6d-f4ed76f0900a.html#axzz3xoCLkoEJ) hanno evidenziato come il Califfato sia diventato il produttore monopolista di un’azienda gestita perfettamente grazie al contributo d’ingegneri, esperti e manager provenienti anche dall’Occidente. Secondo il FT l’Isis è capace di produrre tra i 34 mila e i 40 mila barili di greggio ogni giorno venduti all’ingrosso per cifre che vanno dai 20 ai 40 dollari al barile contro i 100 stabiliti dall’Opec per un reddito percepito di almeno 1,5 milioni di dollari.

I maggiori clienti dovrebbero essere i ribelli di Jabbhat al Nusra che combattono il governo di Damasco principalmente nella parte Ovest, nell’asse che collega Aleppo e Dara. La maggior parte dei siti petroliferi e delle raffinerie controllate dall’Isis si troverebbero in Iraq.
Lo Stato islamico non “vive” comunque solo del mercato nero di petrolio. Tra le entrate è doveroso ricordare anche le “generose donazioni” di alcuni Paesi del Golfo persico. Col pretesto di appoggiare diversi gruppi di opposizione islamisti contro Bashar al Assad, nemico degli Stati della penisola arabica, dalla fine del 2011 un enorme flusso di denaro ha cominciato ad arricchire le casse del gruppo di Abu-Bakr al Baghdadi, lo sceicco leader dell’Isis. Se le donazioni tramite le banche islamiche (https://moneyjihad.wordpress.com/2013/01/07/sharia-banks-that-fund-terrorism/) sono state fondamentali nella prima fase dell’Isis, oggi il cash flow continua a dipendere (almeno parzialmente) da lasciti che per esigenza di sicurezza avvengono solitamente tramite metodi meno tracciabili: corrieri, informazioni scambiate con Whatsup e cellulari. Tra i Paesi sospettati di doppiogiochismo, c’è soprattutto il Qatar che, pur facendo parte formalmente dell’alleanza anti-Isis, non ha ancora imposto una stretta alle sovvenzioni individuali di ricchi petrolieri e principi del Paese.
Sono diverse le fonti ad additare a Doha tra i finanziatori dell’Isis. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, nel “Country Reports on Terrorism” del 2013, scriveva: «Organizzatori di raccolte fondi per i terroristi basati in Qatar, agendo sia individualmente sia come rappresentanti di gruppi, sono stati un significativo rischio di finanziamento del terrorismo e potrebbero aver appoggiato gruppi terroristici in Paesi come la Siria». Altre voci autorevoli. David Cohen, sottosegretario Usa al Tesoro per l’intelligence e la lotta al terrorismo: «Collettori di fondi in Qatar raccolgono donazioni per gruppi estremisti in Siria, inclusi Isis e al Nusra. In Qatar c’è un ambiente permissivo verso il finanziamento del terrorismo». Gerd Muller, ministro dello Sviluppo tedesco: «Dobbiamo chiederci chi arma e finanzia le truppe dell’Isis. La parola chiave  è Qatar».

L’Isis porta con sé una scia di morte e soprattutto di terrore. Non solo per i barbari riti (lapidazioni, fucilazioni, decapitazioni, amputazioni di varie parti del corpo, persone arse vive o gettate nel vuoto da edifici alti) praticati dai suoi miliziani nei confronti di minoranze cristiane, yazide e turcomanne o di poveri civili perché giudicati dai “tribunali” dello Stato islamico «colpevoli» di aver aiutato o fornito informazioni alle forze di sicurezza del governo ma anche per i sequestri che mette in atto. Sequestri a cui spesso fanno seguito richieste di risarcimento che arricchiscono le casse. Tra rapimenti e riscatti sarebbe di circa 98 milioni di euro il tesoretto che i governi europei hanno pagato a gruppi affiliati ad al Qaeda e allo Stato islamico (http://www.lettera43.it/cronaca/rapimenti-i-guadagni-di-isis-e-al-qaeda_43675154576.htm). Secondo la commissione sul controterrorismo delle Nazioni Unite, all’Isis solo nell’ultimo anno sarebbero arrivati tra i 35 e i 45 milioni di dollari. Più del doppio di quanto incassato tra il 2011 e il 2013 da al Qaeda nella penisola Araba (20 milioni di dollari). E in proporzione più di quanto ha ottenuto al Qaeda nel Magreb dal 2010 al 2014, 75 milioni di dollari.
Assieme a petrolio e rapimenti, il contrabbando mondiale di opere d’arte e oggetti antichi è una delle principali fonti di reddito per lo Stato islamico. Con le distruzioni di siti archeologici (Ninive, Mosul, Nimrud in Iraq) e città antiche (Hatra e Dur Sarrukin) i terroristi non si limitano a cancellare un patrimonio storico ma lo usano anche come fonte di guadagno per finanziare la loro guerra. Una conferma indiretta della crescita del mercato nero di reperti è arrivata dagli Stati Uniti. Le importazioni americane di antichità provenienti dal Medio Oriente sono incrementate vertiginosamente tra il 2011 e il 2013. Secondo i dati forniti dalla US International Trade Commission (http://www.ibtimes.com/islamic-state-antiquities-trade-stretches-europe-united-states-1724733) in soli tre anni le importazioni da Egitto, Iraq, Libano, Siria e Turchia sono aumentate dell’86%, passando da un valore di 51,1 milioni di dollari a 95,1 milioni di dollari. Si tratta di beni archeologici trafugati da Siria e Iraq e commercializzati sul mercato nero grazie all’intermediazione di numerosi uomini d’affari. Il giro di denaro complessivo è, per ora, valutato dall’Unesco 250 milioni di dollari, i mediatori ottengono ricompense tra il 2% e il 5% di quanto contrabbandato. Il traffico di antichità a livello mondiale è stato stimato da Unesco e Interpol tra i 6 e gli 8 miliardi di dollari, una cifra in rapida crescita.

Per altri commenti sul finanziamento di IS si veda:

Marco Maiolino

Alessandro Cardazzone