Attacchi chimici e Missili americani: le Fonti sono attendibili? – by Gabriele Mori

In buona sostanza, la più grande fonte d’informazione e di statistiche sulla guerra civile siriana è, fino a prova contraria, un solo uomo. Scrive sulla Siria da casa sua, nella campagna del Regno Unito a migliaia di chilometri dai teatri del conflitto. Possiede solo “strumenti semplici”, ha un passato politico nettamente di parte e riceve per il servizio offerto denaro da un paese non definito che ipoteticamente ha tutto l’interesse acché quest’uomo rimanga una fonte informativa sulla tematica.

Vi è un concetto che sta molto a cuore a giornalisti e ricercatori: è quello di OSINT. L’OSINT riassume la locuzione Open Source Intelligence, ovvero l’intelligence (come raccolta di informazioni) fatta tramite fonti aperte. La seguente vuole essere una analisi di attendibilità delle fonti – e un esercizio di ricerca – in merito al supposto attacco chimico avvenuto nella provincia siriana di Idlib il 4 aprile da cui è scaturito l’attacco americano dei 59 missili sparati su una base militare di uno Stato sovrano, che è la Siria.

Prima di entrare nel merito dei contenuti è bene fare una piccola premessa di contesto.

Viviamo nell’era dei cosiddetti Big Data che, sfruttando il significato estensivo e di senso comune, si può intendere come un periodo della storia umana in cui l’enorme quantità di dati supera grandemente la nostra capacità di processarli, classificarli e comprenderli. Di fronte all’immensità di questa conoscenza potenziale si resta impreparati e disarmati, e per compensare la normale ignoranza su certe tematiche ricorriamo allo strumento della fiducia. Fiducia in un attore (sia esso un politico o un giornalista) che si trasforma in pregiudizio verso un altro che ha idee (ma sarebbe meglio dire “interessi”) contrapposti. In virtù di ciò ci si fida anche di notizie semplicistiche nei contenuti, che siano in grado di ridurre i conflitti tra una moltitudine di parti – spinte dalla ricerca del proprio vantaggio – come uno scontro tra soli buoni e cattivi, mossi dalla morale (positiva o negativa, rispettivamente).

Questo approccio all’informazione un senso ce l’ha: verificare criticamente ogni singola notizia, con i mezzi attuali, comporterebbe un dispendio di tempo inumano. Emblematicamente si pensi che ogni giorno viene caricata, solo su YouTube, una quantità di video tale da necessitare più di 50 anni di vita per essere visionata.

Quando però si tratta di giudicare un paese come colpevole di stermini contro la sua stessa popolazione le valutazioni devono essere ponderate, e le conclusioni in merito devono risultare approssimabili ad una ragionevole certezza. Non risulta più sufficiente “sensato” l’approccio fideistico all’informazione. Soprattutto se dall’esito del processo informativo conseguirà un’aggressione militare.

Rispetto alla supposta strage con armi chimiche avvenuta il 4 aprile a Khan Shaykun, nella provincia siriana di Idlib, questo controllo critico delle informazioni non è stato fatto né dall’America e né da quei paesi che hanno accusato il presidente siriano Bashar al-Assad di questo becero sterminio (Italia di Gentiloni inclusa). Ciò dando momentaneamente per scontato che non ci sia malafede.

Nel vivo della vicenda. Si propone ora un’analisi delle fonti, un po’ di open source intelligence, sapendo che per offrire notizie attendibili, queste, devono essere molteplici e indipendenti.

Quante sarebbero le fonti, supposte come primarie ed accreditate, ad aver riportato dell’attacco chimico – escludendo quindi chi la notizia l’ha solo citata senza verificarla con un proprio inviato (come hanno fatto i nostri giornali)? Una. Quale sarebbe?

SOHR, Syrian Observatory for Human Rights ( http://www.syriahr.com/en/ ). La fonte probabilmente più citata dai media occidentali quando si tratta l’argomento siriano si trova nella casa del suo fondatore, a Coventry, nel Regno Unito.

L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani – cito la pagina ufficiale dove vi è una presentazione dell’ente – si descrive come imparziale: ribadisce per due volte in 20 righe, nella frase di apertura e in quella di chiusura, che “non è associato o collegato con qualsivoglia organo politico”.

“Siamo un gruppo di persone” e “cooperiamo con organizzazioni per i Diritti Umani in Siria”, prosegue la descrizione, senza specificare dove sia ubicata la sede centrale, chi siano i membri partecipanti e quali le organizzazioni con cui dialoga. Gli articoli pubblicati infatti non hanno mai autori individuali: o non vi è alcuna firma oppure, se c’è un riferimento, è ad un altro giornale on line dal quale la news è semplicemente copia-incollata. Tutto questo non dimostra la disonestà dell’ente, però rende ardua (forse impossibile) una verifica di quelle informazioni presentate come elaborazione diretta e originale del SOHR, il quale diventa così una fonte primaria oltre cui non è possibile procedere a controlli indipendenti raggiungendo lo stesso livello di credibilità che offrirebbe un blog monogestito.

“Monogestito”? Ma non si parlava di un gruppo?

Ritorniamo ora alla pagina di descrizione del SOHR; perché un nome, in effetti, viene fornito: è quello di Rami Abdurrahman, direttore e fondatore dell’osservatorio. Da un osservatorio – che tra l’altro parla di sé al plurale – ci si aspetterebbe una squadra di ricercatori e di inviati-osservatori sul campo. Abdurrahman, però, risulta essere l’unico membro noto dell’ente, tanto da essere definito dal New York Times come un one-man band.

“Un semplice cittadino da una famiglia semplice che ha imparato a raggiungere qualcosa di grande usando strumenti semplici”, questa è la definizione che egli stesso dà di sé sull’articolo del NYT in cui dichiara di avere quattro uomini sul campo (i cui nomi non sono resi noti). Questa descrizione fa senza dubbio onore al direttore del SOHR ma i suoi cosiddetti “strumenti semplici” rendono al contempo poco affidabile la sua capacità di fornire numeri così precisi sul conflitto siriano (statistiche che l’osservatorio sforna con cadenza quotidiana).

Abdurrahman, nato in Siria col nome di Ossama Suleiman, fu imprigionato tre volte per il suo attivismo anti-governativo e filo-democratico per poi fuggire verso il UK nel 2000 temendo ulteriori ripercussioni. “Sono venuto nel Regno Unito il giorno che Hafes al-Assad è morto e ritornerò [in Siria] quando Bashar al-Assad se ne andrà” racconta a Reuters. Nulla di strano nell’essere politicamente schierati, ma quando sei il direttore dell’osservatorio più citato dai media occidentali sulla Siria di Assad, e sei anti-Assad, è legittimo sospettare che le tue notizie siano potenzialmente inficiate da un certo grado imparzialità.

Si riprende a citare il New York Times proprio perché più volte ha menzionato il SOHR nei suoi articoli e ha mostrato una posizione nettamente anti-Assad (pertanto vi è ragione di credere che difficilmente parlerebbe di Abdurrahman con l’intento di diffamarlo); di ciò vi è un recente esempio: “Un nuovo livello di depravatezza, anche per Bashar al-Assad”, questo è il titolo che il NYT pubblicava il giorno stesso della strage con armi chimiche del 4 aprile, senza fornire prove a sostegno della sua pesante asserzione.

È infatti il giornale newyorkese a rivelare che Abdurrahman è in una situazione in cui “i soldi dai due negozi di vestiti [gestiti da lui e la moglie] coprono le sue necessità minime per poter dare notizie del conflitto, insieme a piccoli sussidi dall’Unione Europea e da un paese europeo che [Abdurrahman] si rifiuta di rivelare”. Per quale ragione il paese benefattore non viene rivelato? Che ci sia un conflitto d’interessi? Che sia lo stesso Regno Unito che ha dato rifugio ad Abdurrahman, il cui governo si espresse nel 2011 per un cambio di regime in Siria e nel 2013 per l’intervento armato contro Assad? Quegli UK dal cui Foreign & Commonwealth Office (ovvero quel “dicastero del Regno Unito responsabile della promozione degli interessi del Paese all’estero”, citando Wikipedia) Rami Abdurrahman è stato visto uscire nel novembre 2011 dopo un incontro col segretario per gli affari esteri William Hague insieme a Haytham Manna e Khalaf Dahoud (allora rispettivamente portavoce all’estero e membro del comitato esecutivo del NCC, coalizione di 13 partiti siriani d’opposizione)?

Eppure, come recita la pagina ufficiale, “l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani non è associato o collegato ad alcun organo politico”.

In buona sostanza, la più grande fonte d’informazione e di statistiche sulla guerra civile siriana è, fino a prova contraria, un solo uomo. Scrive sulla Siria da casa sua, nella campagna del Regno Unito a migliaia di chilometri dai teatri del conflitto. Possiede solo “strumenti semplici”, ha un passato politico nettamente di parte e riceve per il servizio offerto denaro da un paese non definito che ipoteticamente ha tutto l’interesse acché quest’uomo rimanga una fonte informativa.

Ebbene, quanto riportato in questo resoconto non vuole dimostrare con certezza la faziosità del SOHR. Al contrario è un invito al dubbio, a non dare nulla per scontato, soprattutto quando le infondate sicurezze diventano motivo di aggressione bellica (come quella dei 59 missili americani nei confronti del territorio siriano e dei suoi uomini – definiti semplici “danni collaterali” sono i 15 morti fatti dall’attacco statunitense).

«La storia è una galleria di quadri in cui ci sono pochi originali e molte copie».

(Alexis de Toqueville)

Una parentesi storica, perché la storia insegna.

La “guerra umanitaria” in Libia fu motivata dalle supposte stragi di Gheddafi quando si credette (o si volle credere?) alle falsità riportate da Sliman Bouchuiguir, fornite appositamente per coadiuvare l’intervento NATO.

L’invasione dell’Iraq fu giustificata da quelle informazioni giunte “da fonti attendibili” (si trattava dell’iracheno Rafid Ahmed Alwan al-Janabi), sul possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein, che si rivelarono più avanti come completamente inventate.

Le analogie storiche possono essere infinite. Senza contare che un tentativo di muovere guerra alla Siria, sempre da parte USA (allora vi era la presidenza Obama), vi fu già nel 2013 e sempre in seguito ad accuse date per certe sull’uso di arsenale chimico da parte di Assad (fu la strage di Ghouta).

Una storia che tende a ripetersi.

L’America, ha elaborato un report che proverebbe le responsabilità del governo di Assad nella strage del 4 aprile 2017. Il rapporto, pubblicato solo l’11 aprile (5 giorni dopo dall’attacco missilistico statunitense del 7), è un documento scritto che non cita fonti e metodologie di analisi. Menziona l’attacco chimico dell’agosto 2013 (si suppone quello di Ghouta) attribuendolo senza ragione di dubbio ad Assad. C’è da dire però che il rapporto ONU sulla strage di Ghouta del 2013 – si noti la maggior ricchezza metodologica e la trasparenza nel fornire prove fotografiche – conclude che le responsabilità di quell’attacco sono dubbie, in contraddizione con le certezze degli USA in merito. Il report statunitense fa leva per un terzo dello scritto sulle false narrative proposte dalla Russia in merito all’attacco, e fa bene. Ma occorre ricordare che le menzogne seguono gli interessi, e qui sia USA che Russia sono fortemente interessati, per quanto per ragioni contrapposte (strano!). Questo duello dell’informazione ricorda la propaganda da guerra fredda dei due blocchi.

La Siria ha richiesto una commissione esterna per compiere verifiche imparziali su Idlib. Ma questo ancora non è avvenuto, né prima né dopo l’intervento armato: un po’ come emettere una condanna penale e rimandare indagini e processo ad un futuro imprecisato. Anzi, non avendo prove che riconducano l’attacco chimico all’esercito di Assad, l’ONU, nel suo primo Rapporto sulla strage di pochi giorni fa, si è detto non avere “nessuna certezza su Idlib” non essendo in possesso di elementi sufficienti per accertare la verità; ponendosi anche questa volta in antitesi alle affermazioni americane.

Tutto questo ricorda quelle situazioni di comodo in cui si trasforma una catastrofe (ricercata o accidentale) in un caso mediatico volto ad incolpare un nemico da invadere.

Che sia recente (v. Iraq e Libia) o che sia di oltre un secolo fa, la storia insegna: ne è un esempio plateale l’esplosione della corazzata americana USS Maine nel 1889 a largo delle colonie spagnole a cui seguì l’immediata accusa USA nei confronti della Spagna la quale richiese una commissione d’indagine congiunta, e quindi ipoteticamente imparziale, per verificare le responsabilità sugli eventi. La Spagna oltre al rifiuto degli statunitensi sulla proposta d’indagine condivisa, venne investita dalla propaganda anti-spagnola di William Hearst, magnate del giornalismo americano, la cui strategia è riassumibile in una frase che disse ad un fotografo assoldato per immortalare lo scandalo della USS Maine: «Tu fai le foto e io procurerò la guerra». Inutile aggiungere che dalle accuse infondate derivò il casus belli che giustificò l’aggressione americana che permise di strappare alla Spagna Cuba e Portorico.

Ritornando brevemente all’analisi sull’attacco chimico, occorre considerare un video in particolare, della durata di oltre 2 minuti che testimonierebbe i tragici eventi di Idlib. Tra la distesa di corpi morti e in preda alle convulsioni compaiono anche dei soccorritori dall’elmetto bianco e con dei peculiari loghi sulle giacche raffiguranti dei caschi bianchi su sfondo giallo-blu.

Come mai questa nota? Riprendendo l’analisi delle fonti si propone un altro esercizio di ricerca: qual è il primo risultato quando si googla “italian civil defence”? La risposta è intuitiva: il sito governativo della Protezione Civile italiana. E se si prova a fare lo stesso con “syrian civil defence”? Ebbene, nonostante la Siria abbia una sua storica Protezione Civile, in questo caso il collegamento porta al sito di una organizzazione no-profit, i cui membri sono noti come White Helmets – Elmetti Bianchi – gli stessi apparsi nel video.

Non ci si dilunga su questa organizzazione anche perché i loro legami col terrorismo islamista e la loro capacità propagandistica di messinscena di finti salvataggi ha ormai superato i livelli del ragionevole sospetto.
Ancora una volta ci si trova di fronte ad una fonte scarsamente attendibile su ciò che vediamo, siamo convinti di vedere o desideriamo vedere. Non solo, ma si può ipotizzare che l’uso della locuzione “Syrian Civil Defence” crei una distorsione estremamente sottile della realtà e dell’uso dei termini, sostituendo un contenuto con un altro, sfruttando e mistificando, in stile orwelliano, un significante già esistente.

Insomma. Ingenuo chi crede che siano fucili e munizioni a possedere ancora il primato nell’arte bellica: la guerra moderna, quella del mondo in rete e globalmente interconnesso, è la guerra che trova nell’apparenza la sua arma e nelle informazioni i suoi proiettili.