Attacco a San Pietroburgo: l’ultimo di una lunga serie che interroga sullo stato della sicurezza – by Marco Lombardi e Giovanni Giacalone

Sale a quattordici il numero dei morti dell’attacco di San Pietroburgo, causato da un attentatore suicida che si è fatto esplodere all’interno di un vagone della metropolitana di Mosca.

Cosa sta succedendo in Russia? E’ reale l’ipotesi secondo cui i foreign fighters di ritorno, originari delle ex repubbliche sovietiche del Caucaso e Asia Centrale, aumentino il rischio in territorio federale? In verità no, per il semplice fatto che si tratta del medesimo fenomeno che si è verificato dal 1996 in poi in Caucaso con quel “separatismo” che è poi stato infiltrato dall’islamismo di matrice wahhabita e salafita. Del resto anche in Paesi come Uzbekistan e Kirgyzistan l’Islamismo ha assunto un ruolo fondamentale all’interno della società, insidiandosi nelle scuole, nei luoghi di culto, approfittando delle relative problematiche economico-sociali oltre che il forte sentimento etnico anti-russo.

Prendendo come esempio il Caucaso settentrionale, se l’iniziale separatismo anti-russo di metà anni ’90 ha rapidamente assunto sembianze islamiste con la creazione dell’Emirato del Caucaso, con la guerra in Siria si è entrati in una nuova fase con l’Emirato che si è progressivamente sgretolato a favore del Califfato e con diverse wilayat confluite nell’ideologia dell’Isis. Un Califfato quasi inesistente in Caucaso a causa del flusso di combattenti in partenza, oltre che per la strategia preventiva delle autorità locali.

I jihadisti che sono partiti da Paesi come Cecenia e Daghestan, per andare a combattere in Siria non sono altro che il prodotto di quella deriva islamista che prima operava in territorio nord-caucasico, così come i kirgyzi, gli uzbeki e i kazaki lo sono per l’area dell’Asia Centrale. La matrice religiosa ha rimpiazzato quella prettamente etnica ma il nemico è sempre lo stesso, la Russia.

Ricostruzione dei fatti e possibile pista kirgizo/siriana

La ricostruzione dell’attentato è apparsa da subito molto confusa, un po’come quella di Westminster del 22 marzo scorso.

Inizialmente l’ipotesi parlava di due ordigni IED, composti da 200/300grammi di TNT e pezzi di metallo lasciati in metropolitana da due attentatori allontanatisi subito dopo.

Il primo ordigno è esploso all’interno di un vagone centrale della metropolitana, nei pressi della porta d’entrata, mentre il secondo è stato lasciato all’interno della stazione, inserito all’interno di un estintore, ma è stato individuato e disinnescato dagli artificieri.

Secondo gli analisti russi l’ordigno esploso sarebbe stato portato dall’attentatore a livello della pancia, visto che la maggior parte delle ferite causate alle vittime sono proprio a quell’altezza.

In un primo momento i sospetti cadevano su un soggetto con barba, cappello islamico e abito nero, immortalato dalle telecamere della stazione. Successivamente l’uomo in questione si presentava alle autorità affermando di non essere lui l’attentatore.

Poco dopo emergeva un’altra immagine di soggetto distinto indicato come il presunto attentatore, forse kamikaze con ordigno dentro lo zaino. Si ipotizzava un cittadino kazako di nome Anwar Zhainakov e poi Maxim Arishev, ventiduenne sempre kazako. In seguito spuntava un altro nome, quello del ventiduenne kirghiso Akbarjon Djalilov, forse legato a gruppi jihadisti in Siria, come affermato da una “soffiata” di un collaborazionista.

L’ultima versione afferma che l’uomo avrebbe agito da solo piazzando un primo ordigno che sarebbe dovuto esplodere dopo la detonazione del vagone, ma neutralizzato dall’attivazione dei protocolli di sicurezza che prevedono l’inibizione dei segnali radio una volta avvenuta un’esplosione.

Secondo fonti russe il terrorista sarebbe legato a un’organizzazione islamista messa al bando in Russia; non è ancora chiaro di quale si tratti ma si ipotizzano Hizb ut-Tahrir, Islamic Jihad Union (Uzbekistan), Isis ma anche la neo-nata Hayyat Tahrir al-Sham.

Intanto il sito Kavkaz Center, collegato all’Emirato del Caucaso, ha lanciato subito la teoria dell’”inside job” collegando l’attentato alle manifestazioni anti-Putin dei giorni scorsi. Nel contempo venivano segnalati festeggiamenti per l’attentato da parte dei jihadisti siriani anti-Assad.

Al momento non c’è ancora nulla di certo a parte l’evidente incertezza sull’identità dell’attentatore, esattamente come nel caso di Westminster, quando diversi nomi di potenziali attentatori si sono susseguiti con lo scorrere delle ore.

Manca la rivendicazione, che probabilmente arriverà nelle prossime ore, ma che getta comunque un senso di atomizzazione priva di concreta regia all’interno di quella galassia jihadista che sembra sempre più frammentata, come del resto conferma la formazione del nuovo gruppo siriano Hayyat Tahrir al-Sham, nel tentativo di riunire le forze disperse e riprendere la lotta contro Assad e Mosca.

L’intervento russo in Siria ha cambiato radicalmente il decorso del conflitto, sferrando un colpo durissimo sia all’Isis che ai gruppi jihadisti anti-Assad, permettendo così alle forze governative di riprendere il controllo di buona parte del territorio.

Minacce alla Russia erano arrivate da diversi gruppi jihadisti ed estremisti come l’ex Jabhat al-Nusra, l’Isis, le katiba del Caucaso e Asia Centrale presenti in Siria e persino dai Fratelli Musulmani. Un attentato in territorio russo era più che plausibile e questo era ben noto al FSB, tanto che le misure di sicurezza nelle principali città russe erano state alzate al massimo livello.

Non dimentichiamo poi che l’Isis ha recentemente lanciato minacce anche all’”Iran sciita”, grande alleato di Mosca in Medio Oriente, accusato dai jihadisti di combattere assieme ad Assad e ai russi.

Non dimentichiamo inoltre che lo scorso 24 marzo una caserma dell’esercito in Cecenia era stata presa d’assalto da un gruppo di otto terroristi ideologicamente legati all’Isis. Sei militari e sei terroristi rimanevano uccisi ed uno degli attentatori veniva arrestato poco dopo.

La sicurezza non c’è più: 5 attacchi in 18 giorni. 

L’attacco di San Pietroburgo è l’ultimo di una serie di attacchi, certamente il più grave, che hanno punteggiato gli ultimi 18 giorni.

E’ interessante una cronologia e pochissimi dati.

17 marzo, Parigi: duplice omicidio in rue de Montrueil, nell’XI arrondissement di Parigi, dove un uomo ha sgozzato fratello e padre al grido di “Allah Akbar”. L’assassino è stato fermato dalla polizia francese, le ragioni sono riconducibili a litigi familiari.

18  marzo, Aeroporto di Orly: Ziyed Ben Belgacem, cittadino francese già condannato per reati comuni e noto alla polizia e ai servizi di intelligence transalpini perché sospetto di radicalizzazione in carcere, prima spara a un posto di blocco poi attacca l’aeroporto rubando l’arama a un poliziotto e gridando “Sono qui per morire in nome di Allah”.

22 marzo, Londra Westminster: attacco con automobile e arma bianca. Il sospetto è prima identificato in un 40enne di origini asiatiche, vestito di nero e, secondo fonti israeliane ampiamente rilanciate, dal nome di Trevor Brooks, un cittadino britannico di origini giamaicane convertitosi all’Islam col nome di Abu Izzadeen, risultato poi essere già agli arresti. Infine si arriva a Khalid Masood , alias Adrian Russel Ajao, Adrian Elms, britannico con origini nigeriane, ex mujahid in Bosnia.

23 marzo, Anversa: un 39enne, Mohamed R., ha tentato di investire i pedoni lungo una via commerciale della città  arrestato.  E’ nato nel 1977 ed è francese, guidava ubriaco.

3 aprile, San Pietroburgo: dopo l’attacco alla metropolitana si cerca un uomo in abito nero, cappello e barba nella perfetta iconografia del caucasico radicale. L’uomo si presente spontaneamente e dimostra la sua estraneità. Poi il colpevole è Maxim Arishev, 22 anni, studente a San Pietroburgo, nazionalità kazaka, per trasformarsi in Anuar Zhainakov e, infine, per ora, in Djalilov Akbardjon (Akbarzhon Jalilov), nato nella città di Osh nel 1995, in Kirghizistan.

Diciotto giorni intensi, come pochi in passato, che hanno in comune l’espressione della violenza manifestata sempre attraverso i richiami dell’terrorismo islamista: si tratti di una rivendicazione esplicita di una agenzia terrorista (Amaq), di un grido al nome di Allah, del modus operandi bene promosso da Daesh, di un passato di radicale e combattente. Cinque attacchi in diciotto giorni, una sola matrice di ispirazione, una molteplicità di diverse ragioni a movente.

Ripeto una affermazione già fatta su queste pagine, ma importante da sottolineare soprattutto in questo momento: un atto è di terrorismo per gli effetti che ha non per le ragioni che lo promuovono. Questa affermazione potrebbe essere anche falsa sul piano giudiziario, ma è vera sul piano sia politico sia sociale, perché l’effetto di ciascuno di quei cinque attacchi è stato e politico e sociale, impattando sulla quotidianità della vita delle comunità colpite, ponendo un problema istituzionale di governo della situazione con rilevanza anche internazionale.

Il “terrorismo” è diventato l’atto espressivo della convinzione ideologica, religiosa e nazionalista, della arrabbiatura, della pazzia e del disagio. E di quanto altro su una base soggettiva, rinforzata da una strategia mediatica adeguata, richieda una affermazione violenta. In pratica il terrorismo è una forma diffusa di conflitto sfruttata nei suoi risultati dalle organizzazioni terroristiche, da queste promossa a livello soggettivo e realizzata a livello individuale. La conclusione è una generale incapacità previsionale degli attacchi e l’esplosione dell’incertezza.

Gli attacchi degli ultimi diciotto giorni hanno mostrato una incredibile rapidità mediatica nello sbattere in prima pagina il colpevole insieme a una grande frequenza nel sostituire un colpevole a un altro da parte delle istituzioni. I media, da una parte, fanno il loro lavoro giocando di anticipo per rispondere alla domanda chiave di ogni atto doloso emergente dal pubblico: “chi è stato?”. Gli inquirenti, d’altra parte, fanno il loro lavoro dimostrando di non avere nessuna possibilità di comprendere ex ante la linea operativa entro la quale si dipana l’attacco.

Entrambi rispondono male al bisogno di espulsione dell’incertezza.

In questo contesto terribile, la minaccia durerà a lungo e sempre meno determinata, pertanto imprevedibile, nel medio periodo. Questo perché la pluralità e diversità delle ragioni individuali impediscono all’intelligence di anticipare l’evento terroristico e perché il radicalismo terrorista, specialmente quello islamista di Daesh, sfrutta perfettamente la condizione di vulnerabilità sistemica diffusa.

Lo stato incerto della sicurezza nel prossimo futuro è affidato, per promuoverne il miglioramento, a diverse linee concorrenti di intervento che non possono essere considerate alternative:

  • politiche a breve termine di contrasto duro alle organizzazioni terroriste e alle reti loro contigue;
  • politiche a medio termine di contrasto al proselitismo e alla comunicazione della violenza;
  • politiche a lungo termine che agiscano nella profondità delle comunità sociali, con una azione sui loro tratti culturali.