Champs-Élysées: ancora Parigi, e l’Europa, sotto attacco – by Marco Lombardi

L’attentato di ieri, 20 aprile, ai poliziotti francesi, sui Campi Elisi di Parigi ha sorpreso tutti malgrado fosse atteso. Il paradosso si risolve negli arresti a Marsiglia, del  18 aprile di due terroristi che stavano per preparare un attentato. Quanti hanno tirato il fiato pensando di averla scampata? Ma Daesh ha sorpreso ancora. E’ ancora presto per tirare delle conclusioni ma si può cominciare a mettere in fila alcune cose.

La rivendicazione: è stata fatta ufficialmente da Amaq in tempi rapidissimi e prossimi all’evento: eravamo abituati ad aspettare un paio di giorni. E’ una rivendicazione precisa, che non solo fornisce il luogo dell’attacco ma anche il nome del terrorista: non era mai capitato. Il tale è Abu Yusuf al-Beljiki, cioè il Belga: si usa quello che è abitualmente un nome di battaglia, che specifica il luogo di provenienza del combattente di Daesh presente nei battaglioni internazionali del Califfato. Che Abu sia consono a questi atti lo si scopre subito: già nel 2001 (quando non c’era ancora Daesh) era stato condannato perché aveva tentato di colpire con un’arma due poliziotti. Inoltre un Abu Yussuf al Baljiki è presente in uno dei documenti rilasciati da Zaman al-Wasl (leaks Journal) riguardanti la schedatura dei combattenti. La rivendicazione tuttavia, nella sua volontà di precisione, apre un problema: Abu Yusuf al-Beljiki si scopre essere – almeno a questa mattina del 21 aprile- tale Karim C. con le caratteristiche di cui sopra. Che succede: Amaq sorpresa rispetto a quanto era previsto? Sviamento? “Rilancio” mediatico sul belgio? Come al solito, come è stato per tutti gli attacchi di queste settimane, aspettiamoci che le cose cambino ancora.

Ma qualche cosa di stabile emerge dalla serie di attentati.

L’attentato non è il solito: è mirato alla polizia con l’impiego di un’arma che poteva fare una strage, un’azione condotta da qualcuno preparato che aveva deciso chi colpire, più vicina a Charlie Hebdo che alla Promenade di Nizza. Un personaggio che ha eseguito alla lettera le lezioni di Daesh, per esempio avendo base operativa non nel Paese in cui ha colpito, ma in quello prossimo. Non si tratta di un lupo solitario un po’ squinternato. Ma di altro.

Il tempo in cui avviene l’attacco è critico: appena prima delle elezioni cruciali per la Francia, ma significative per l’intera Europa. Queste affermazioni le “abbiamo fatte noi”: subito dopo gli arresti di Marsiglia, infatti, tutti i commentatori si sono lanciati nel definire il terribile impatto che avrebbe avuto sulle elezioni l’attentato appena sventato. E tutti avevano tirato il fiato per lo scampato pericolo. Invece Daesh ha colpito con effetti che erano già stati descritti: si tratta di una situazione paradossale in cui l’evento è facilitato nel seguire una strada aperta definita in sua assenza, prima del suo accader. Non si tratta di un caso: Daesh è da tempo un “attore politico” della scena globale, imponendosi con gli strumenti del conflitto, della guerra, che il resto del mondo ha rifiutato. Con l’attacco di ieri ha ancora dimostrato di conoscere molto bene la cultura e le dinamiche del mondo infedele che vuole combattere, piazzando la palla in buca al momento giusto.

Gli effetti sulle elezioni francesi ci saranno, appunto li hanno già raccontati i commentatori, con il facile paragone a quanto accadde dopo l’attentato alla Stazione di Atocha. Daesh da anni promuove un processo di doppia radicalizzazione. In genere si considera la radicalizzazione come quel processo che porta l’islamista radicale a diventare violento e terrorista: vero, è il primo obiettivo di Daesh. Ma accanto a questo il Califfato ha sempre favorito anche la radicalizzazione in campo avverso: Daesh ha bisogno del nemico perché senza il conflitto muore, pertanto sta nelle sue corde promuovere visioni radicali estreme, di nemici senza vie d’uscita diverse che non l’annichilimento di uno dei due. In pratica: con il primo percorso cerca proseliti e cerca di impedire all’Islam che non si riconosce nel terrorismo di distinguersi; con il secondo percorso cerca di impedire che l’Europa chieda e pretenda, con forza, all’Islam che non si riconosce nel terrorismo di dichiararsi. Insomma: si cerca di impedire sia che qualcuno alzi la mano sia che qualcuno chieda di alzare la mano. Il risultato di questa doppia radicalizzazione è drammatico perché genera instabilità e incertezza diffusa.

La minaccia è in aumento: sono settimane drammatiche perché punteggiate di tanti attacchi violenti che, in un modo o nell’altro, si rifanno a Daesh. Si comincia il 17 marzo a Parigi col duplice omicidio in rue de Montrueil, dove un uomo ha sgozzato fratello e padre al grido di “Allah Akbar”. Si torna a Parigi con l’attacco di ieri. E di mezzo ce ne sono altre sei. In  maniera diversa Daehs è presente: nell’ultimo con una rivendicazione generativa forte, nel primo con un afflato ispiratore. Si tratta di attacchi che richiedono risposte diverse, che hanno ragioni diverse ma che dimostrano la presenza multiforme del Califfato, e la sua minaccia, sui nostri territori. Una minaccia in aumento perché ai Campi Elisi non ha agito un lupo solitario ma un combattente che, nel nome, denuncia appartenenza e formazione sul campo, e nella rivendicazione immediata, la premeditazione. Siamo in una nuova fase della guerra diffusa e delocalizzata del Califfato: mesi addietro aveva cominciato a invitare a non partire ma a restare per colpire i kuffar nei paesi in cui si viveva. Adesso, con il terreno che scotta e si riduce rapidamente, sta rimpatriando i combattenti dopo averli formati con gli indirizzi e le modalità di agire al rientro. Questo rende superflua una catena di comando e controllo rigida, attraverso la quale si pianifichino i dettagli dell’azione, ma ne favorisce una rapida e difficilmente intercettabile, il cui compito è  solo attivare chi sa come e dove colpire. Questa nuova fase del terrorismo sta portando la guerra ibrida, definitivamente, in Europa.