Cooperazione e Cultural Diplomacy: resilienza e cultural focal points – by Marco Lombardi e Barbara Lucini

Le nuove forme di conflitto diffuso sollecitano strategie innovative di risposta sul piano politico e interrogano la cooperazione quale sistema di intervento adeguato alle nuove sfide.

Premessa.

Una breve premessa, che contestualizza quanto sopra, sottolinea come la globalizzazione – di cui si parla quotidianamente – sia ancora un processo incompiuto e incompreso, che si tenta di contenere nei paradigmi interpretativi del passato senza fare il salto concettuale che comporta un cambiamento di per sé radicale. Si potrebbe aggiungere che forse questo salto “non si è voluto fare”, nella speranza di mantenere le forme di “ordine precedente”, corrispondenti a consolidati modelli cognitivi. Per questo la globalizzazione si spiega, in genere, come “complessità”, dovuta all’intensificarsi delle relazioni tra una rete sempre più fitta di nodi, e come “omologazione”, diffusione di uniformità che garantisce relazioni lineari tra i nodi. In entrambi i casi, si interpreta la globalizzazione con paradigmi del “pre globale”, sognando la restaurazione, cioè la normalizzazione e il ritorno, e non il cambio di un paradigma di comprensione del mondo.

Che la globalizzazione sia interpretata in modo funzionale a trovare scuse per “rifiutare le novità” che comporta emerge dal fatto che si rifiuta di applicare ai conflitti, le medesime prerogative “globalizzanti” di altri fenomeni: si accetta che essa produca aumento (circolarità) di movimento di persone, di beni, di capitali, di informazioni… ma non di conflitti e di violenza. Eppure il mondo è caratterizzato, sempre più, da quella forma di conflitto diffuso, pervasivo e delocalizzato che si chiama Guerra Ibrida, che coinvolge numerosi attori che, finora, “non potevano stare insieme” in un contesto di guerra che si manifesta sotto forma non convenzionale .

Pur nella sintesi di una breve nota, queste righe di premessa richiamano alla necessità di trovare nuovi strumenti per la riduzione dei conflitti alla luce di differenti interpretazioni sistemiche a cui la globalizzazione rimanda. In tale prospettiva, la proposta è di una rottura radicale con le vecchie strategie che, appunto, sottolineano complessità e omogeneità come caratteri e risultati qualificanti il sistema di relazioni.

Cominciamo a cambiare l’idea di rete: i nodi non sono tutti eguali, né lo diventano, ma ogni nodo è altamente specifico (diverso dagli altri nodi) e necessariamente in rete con gli altri nodi (dato oggettivo del processo di globalizzazione). In questo modo l’attenzione strategica per gestire il processo si sposta dai nodi ai loro legami: la chiave di accesso sono le relazioni, che devono essere in grado di gestire le differenze tra i nodi: le forme relazionali, i processi relazionali sono gli “elastici” culturali e politici che permettono la forma reticolare delle diversità.

La rete globale non omogeneizza un bel nulla, se non nella speranza della restaurazione di una forma di potere pre-globale, ma al contrario offre la possibilità di un governance delle diversità spostata dal “nodo” al “legame relazionale”, nella misura in cui si vuole e si può vedere l’emergere del nuovo paradigma.

Questo spostamento concettuale non è ancora avvenuto, tanto è vero che sia il potere globale omogeneizzante sia il sovranismo locale dividente rispecchiano la lettura di eventi reali nuovi con paradigmi vecchi.

E’ evidente che in questo momento ci troviamo in un sistema globale turbolento che cerca nuove forme di stabilità che devono essere affidate a nuove forme di “diplomazia”. Per queste caratteristiche generali, le identità locali sono degli ancoraggi cognitivi importanti, tanto da poter affermare che una risposta alla turbolenza si ha rinforzando le culture locali, intese come il serbatoio di identità che favorisce l’interpretazione del cambiamento, in rete tra loro tramite un sistema cooperativo facilitante.

Purtroppo, la stessa cooperazione, intesa come strategia della diplomazia, è intrappolata nel modo vecchio di vedere, a cui partecipa un sistema di relazioni internazionali e di teorie politiche superate, e non ha colto il cambiamento: essa persegue programmi e azioni che non sortiscono nulla perché guardano a un orizzonte che non può più essere quello offerto alla luce delle premesse di cui sopra.

La proposta qui abbozzata, concreta in termini di lavoro di ricerca e sul campo, è di riposizionarsi verso un mondo reticolare fatto di nodi diversi tra loro, in relazione tramite legami capaci di contenere la diversità, dove

  • la resilienza culturale si struttura in una politica di governo locale;
  • il mondo globale è fatto di singolarità forti in rete, in cui cambia il modello egemonico;
  • la cooperazione è uno strumento di ri-negoziazione delle forme di potere;
  • la Diplomazia Culturale è lo strumento di navigazione per il difficile periodo di transizione che stiamo vivendo.

Resilienza.

In questo contesto di cambiamento, il concetto di resilienza, che nasce nelle scienze dei materiali per indicare la resistenza a rotture provocate da sollecitazioni dinamiche, indica la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, situazioni avverse di varia natura. Non solo: la resilienza acquista quel particolare carattere di proattività per cui essa non significa solo resistenza di fronte a un urto, a un danno, a una situazione avversa, ma anche e soprattutto la capacità di riuscire ad auto-ripararsi dopo questo evento critico e di sapersi riorganizzare in modo positivo, produttivo ed efficace, dopo aver vissuto e affrontato la situazione difficile. In questo senso la promozione della resilienza, a livello sociale, di comunità, non ha più a che fare con “la cura” per ripristinare il livello di normalità dopo la crisi, ma sviluppa la capacità di affrontare le criticità[1].

Pertanto, il focus sulla resilienza culturale può permettere una migliore e proattiva consapevolezza degli stereotipi e dei pregiudizi, fattori di vulnerabilità, che operano nei contesti conflittuali o in aree di crisi[2]: la conoscenza e la valorizzazione delle differenze può quindi essere un’importante chiave di accesso per il sostegno alle vie di riconciliazione.

La sua intrinseca caratteristica di flessibilità, rende la resilienza un fattore culturale e un criterio di analisi adattabile anche alla gestione di fenomeni estremi e violenti, applicando una prospettiva antropologica e socio-culturale. Sempre più spesso infatti, assistiamo da differenti fonti alla descrizione di fenomeni violenti, estremisti, che affondano le loro radici nelle motivazioni più disparate, molte delle quali spesso non riconducibili ad un contesto a noi conosciuto.  Proprio per queste ragioni si impone una riflessione più ampia, di natura socio-antropologica circa il ruolo strategico, metodologico e operativo che l’abilità di gestire criticità e cambiamento, ovvero la resilienza, può offrire in contesti differenti, ma pur sempre polarizzati e caratterizzati da una più o meno esplicita violenza inter-gruppo e interculturale.

Un approccio rilevante in questo ambito concerne la promozione di resilienza delle comunità attraverso la considerazione del patrimonio culturale e delle pratiche culturali. A questo riguardo uno studio basato sul progetto CURIOS – Cultural Repositories and Information Systems[1] ha avuto come scopo quello di dimostrare come il patrimonio culturale possa costruire resilienza collettiva e di comunità. Lo studio è particolarmente utile perché considera le varie e diverse attribuzioni di senso del luogo che le singole comunità possiedono, ponendo anche in risalto come in questo contesto sia necessario situare le azioni di ricerca nel proprio ambito geografico – culturale promuovendo quello che Franklin et al. (2011)[3] hanno definito social geographies of resilience. Quindi, l’importanza delle geografie di resilienza è direttamente legata al senso storico, collettivo di identità che del luogo ne vengono dati. In questo modo, il lavoro della memoria diventa essenziale per più ambiti di lavoro:

  • promozione di best practices per meglio comprendere le pratiche di riduzione del rischio e quelle di prevenzione attraverso la valorizzazione delle prospettive culturali presenti;
  • promozione di pratiche di riconciliazione, riduzione e gestione dei conflitti attraverso la considerazione del patrimonio culturale tipico delle comunità coinvolte nei conflitti.

In questo modo la resilienza culturale diventa un driver importante di azione nell’ambito del crisis management in zone di conflitto, in particolare focalizzandosi su:

  • la promozione del patrimonio culturale e della resilienza attraverso la valorizzazione dei saperi locali e la loro divulgazione
  • la promozione di pratiche di riconciliazione, di resilienza di comunità e gestione dei fenomeni violenti, estremi e polarizzati, mediante una conoscenza culturale dei pregiudizi e degli stereotipi che alimentano tali visioni estreme e i conflitti violenti

Cultural Focal Points.

Il cambiamento culturale–interpretativo, i fattori di crisis management, la specificità della resilienza possono essere declinati nel nuovo strumento definito Cultural Focal Points (CFP): insieme di raccolte rappresentative della cultura materiale e immateriale di una specifica comunità locale e di attività di riproduzione della cultura locale, affinché diventino motori propulsori di iniziative di scambio culturale, promozione del dialogo e della conoscenza reciproca tra le varie realtà etniche coinvolte.

La ricaduta positiva di questo tipo di azione si ritrova nella consapevolezza della conoscenza delle proprie radici quale strumento di promozione del dialogo e della pace. Negli ultimi decenni è di molto aumentata l’insistenza, e il peso, della cosiddetta Public Diplomacy nel contesto delle pratiche di governo delle relazioni internazionali: il “soft power” si è affiancato all’ “hard power” tradizionale soprattutto nelle aree di conflitto, offrendo nuovi strumenti per la gestione delle crisi per identificare percorsi non conflittuali. Ancor più negli ultimi anni, soprattutto con lo svilupparsi delle moderne diffuse e pervasive tecnologie della comunicazione, al termine di Public Diplomacy si è affiancato quello di Cultural Diplomacy. Infatti, le ICT (Information and Communications Technology) hanno dato un ruolo potenzialmente rilevante alle culture nazionali, intese come sistemi di conoscenza, credenze, arti, comportamenti, indirizzi etici e morali, o ogni altro oggetto anche immateriale costruito da una comunità. In questo contesto la Cultural Diplomacy offre strumenti per strategie che mirano alla costruzione di ponti e relazioni tra comunità appartenenti a diverse culture, per promuovere reti e ambiti di governo dei fenomeni condivisi, che sappiano superare i confini nazionali sia della geografia fisica (ambito dell’hard power) sia della geografia virtuale (ambito del soft power).

Il Cultural Focal Point è:

  • statico: può essere paragonato a un museo, nella misura in cui rappresenta processi culturali e mostra artefatti;
  • dinamico: è un luogo di incontro in cui si riproduce ciò che si preserva, favorendo il dialogo e la trasmissione verticale della memoria insieme all’apprendimento del “come fare”;
  • singolare: sottolinea le peculiarità culturali di una singola comunità, che rafforzando la propria identità acquistano consapevolezza e resilienza che si esprimono come “nodo compente” della rete globale;
  • plurale: perché ogni cultura si ritrova nella relazione necessaria con gli altri nodi (culture) della rete, mantenendo reciproche relazioni funzionali.

Lo strumento Cultural Focal Point (CFP) si realizza in uno “spazio contenitore” il cui obiettivo è raccogliere, valorizzare, mantenere, riprodurre e comunicare i segni della cultura materiale (oggetti) e immateriale (canti, danze, riti, narrazioni, cucina e medicina tradizionale, modi di pensare, etc.) di una specifica comunità.

Questa prospettiva propone una nuova sistematizzazione teorica di un modello di cooperazione dinamico e resiliente in linea con i cambiamenti della società, in cui i Cultural Focal Points si relazionano in modo stringente alla Cultural Diplomacy, in un contesto teorico di riferimento dove la resilienza culturale dialoga metodologicamente con i principi applicativi chiave del crisis management.

 

 

[1] B.Lucini (2014), Disaster Resilience from a Sociological Perspective Exploring Three Italian Earthquakes as Models for Disaster Resilience Planning, Springer International Publishing, Springer International Publishing Switzerland

[2] B.Lucini (2014), Multicultural approaches to disaster and cultural resilience. How to consider them to improve disaster management and prevention: the Italian case of two earthquakes, Vol. 18 Procedia Economics and Finance, Science Direct, Available online at www.sciencedirect.com

[3] Franklin, A., Newton, J., McEntee, 2011. Moving beyond the alternative: sustainable communities, rural resilience and the mainstreaming of local food. Local Environ. Int. J. Justice Sustain. 16 (8)