Daesh? Sarà forse “morto”. Ma certo è molto resiliente –  by Barbara Lucini

Il recente attentato occorso a Liegi qualche giorno fa (qui un approfondimento) rivendicato da Deash via Amaq, ma anche l’evocativo attacco con coltello sul treno in arrivo a Flensubg (Germania), riporta l’interesse per una domanda quanto mai essenziale per la sicurezza di tutti noi: quale è l’eredità di Daesh?

La risposta non è di semplicità immediata, ma alcune riflessioni circa lo stato di salute e di resilienza di Daesh devono essere fatte.

In primo luogo negli ultimi mesi la copertura mediatica di questi eventi è andata calando: basti ricordare l’attentato del 23 Marzo a Trèbes o quello del 05 Maggio all’Aja. Tutti questi attentati non hanno ricevuto la stessa attenzione e copertura degli eventi occorsi fino ad Agosto 2017.

Allo stesso modo però non riportare un evento non significa che esso non si sia verificato o che esso non sia reale nei suoi effetti.

Da questo punto di vista appare chiaro che in considerazione di alcune caratteristiche sociali e stili di vita propri, gruppi di cittadini chiedano maggiore sicurezza per le città “sempre più a rischio”.

Questa considerazione muove necessariamente ad un altro punto importante: la sicurezza e la vulnerabilità delle nostre città.

Agenzie internazionali stimano che nel corso dei prossimi due decenni, più del 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città o in quelle che dagli inizi del nuovo millennio sono state definite megacities.

Un riguardo particolare meritano quindi le analisi relative allo stato dei quartieri delle nostre città e alla possibilità di misurare e valutare in modo predittivo determinati eventi.

Il tema delle “violenze territoriali”[1] sarà centrale nei prossimi anni, soprattutto connesso al discorso delle identità plurime e della produzione di sé in riferimento anche ai pregiudizi che ne possono derivare e che necessitano di essere adeguatamente gestiti.

Nonostante quindi una certa dis–attenzione dei media nel veicolare informazioni circa questi eventi, la percezione del pubblico rimane alta e fenomeni come quello occorso in Piazza San Carlo a Torino lo scorso anno mettono in evidenza che esiste una forte interiorizzazione di paura e disorientamento, quando la domanda di sicurezza non trova sua pertinente risposta.

In questo quadro complesso e delicato si delinea però la resilienza di Daesh, nell’essere stato in grado più o meno consapevolmente di strutturare una gestione resiliente della minaccia che voleva portare.

Perché resiliente?

  1. Il cambiamento nel reclutamento operato attraverso un notevole abbassamento del grado di specializzazione richiesta dagli autori dei vari attacchi: dalle armi ai luoghi tutto si è fatto sempre più intimo, familiare, quotidiano permettendo quindi a livello cognitivo un innalzamento della percezione di minaccia come grave e reale
  2. Il gioco sulle dinamiche percettive è proseguito tanto che gran parte della comunicazione strategica verte su effetti cosiddetti di decoupling[2], che consiste nella dinamica di disaggregazione di contenuti per raggiungere però livelli più alti di diffusione
  3. Tale strategia di decoupling si è nel corso del tempo rafforzata attraverso una dinamica di valenza nel suo significato di dare vita a un qualcosa di specifico sia dal punto di vista territoriale sia culturale. In questo caso i recenti e perduranti attacchi con coltello in Germania negli ultimi mesi sono un segno importante della comprensione e utilizzo di tale strategia. Soprattutto agire secondo un principio di valenza significa anche cedere di fronte a difficoltà, ma per sapersi poi ricombinare in nuove forme sempre più attuali
  4. Da una prospettiva “di matrice” si parla sempre di estremismo religioso, ma se ben si analizzano le sue componenti e le sue strategie non è possibile non notare una notevole similitudine con l’ordine politico delle chefferie o dominio: organizzazioni politiche istituite su base regionali e studiate in antropologia attraverso l’appartenenza al gruppo, la leadership e il combinarsi di ruoli fra il funzionale e il parentale
  5. Si ravvedono le caratteristiche della resilienza anche per l’occupazione che è stata fatta di luogo e tempo: il luogo rimanda ovviamente alle nostre città non solo, quindi, violente ma anche violentate così come il tempo è dilatato dal presidio che ne ha fatto la minaccia
  6. Da ultimo una iniziale organizzazione terroristica è stata in grado di innestarsi[3] in contesti geografici e culturali differenti raggiungendo i propri obiettivi, assecondando le vulnerabilità tipiche del sistema vittima e sfruttando certe sue caratteristiche

In questo scenario, dove Daesh per come lo si conosceva è morto, sicuramente rimangono da comprendere gli effetti reali che è stato in grado di generare dimostrando di avere ben appreso i principi della resilienza comunicativa e organizzativa, così come i suoi processi di trasmissione e promozione.

Ciò significa che la sfida concreta è quella di rivolgere più attenzione alle forze in campo nell’ordinario per rispondere e arginare i fenomeni di “terrorismo quotidiano”, integrandosi con le competenze specialistiche cui resta un sempre più difficile compito predittivo.

In definitiva Daesh sta dando prova di sopravvivere perché è un mito alla portata di tutti, a cui è facile aderire ispirandosi con comportamenti semplici: Daesh è dunque vivo nei suoi effetti… anche se non è più lui.

[1] Friedman, J. (2003), Globalisation, Dis-integration, Re-organisation: The Transformation of Violence, Friedman, J. (a cura di), Globalisation, the State, and Violence, Altamira, Walnut Creek, Lanham, Oxford.

[2] https://www.springer.com/gp/book/9783319569420

[3] https://www.springer.com/gp/book/9783319569420