L’attacco a Parigi: una “ISISizzazione” delle tattiche militanti in Europa? – by Emilio Palmieri

Il 7 gennaio 2015, nel centro di Parigi, un team composto da tre militanti di ispirazione e prassi qa’idista ha portato a termine un attacco contro un obiettivo deliberato – la sede del giornale satirico “Charlie Habdo” – e contro obiettivi di opportunità (un poliziotto ed un passante) che si sono frapposti nel corso della manovra di esfiltrazione.

  1. Le fasi.

L’attacco – caratterizzato da velocità e violenza dell’azione che hanno permesso al team d’assalto di guadagnare e sostenere per il tempo necessario al compimento della missione la superiorità relativa nei confronti delle strutture di risposta emergenziali – può essere suddiviso nelle seguenti fasi:

  1. infiltrazione nella target area per mezzo di autoveicolo rubato;
  2. raggiungimento dell’obiettivo deliberato (ancorché con un’iniziale frizione dovuta alla errata individuazione del civico corretto);
  3. saturazione dell’obiettivo ed esecuzione del raid (conseguimento della missione);
  4. manovra di esfiltrazione e contatto con le forze di intervento (obiettivi di opportunità);
  5. fuga ed evasione (con cambio di autoveicolo).

Alle fasi propriamente riferite all’assalto, atteso quanto è possibile rilevare dai filmati diffusi, è ragionevole ritenere che sia:

  • stata svolta un’attività di preparazione informativa dell’area, finalizzata all’assessment della morfologia del terreno, delle strade di approccio all’obiettivo, della fattibilità del target deliberato, delle vie di fuga;
  • stato effettuato un rehearsal delle fasi dell’attacco.
  1. La preparazione informativa dell’ambiente operativo.

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L’ambiente operativo nel quale si è svolto l’assalto è il tipico contesto urbano densamente popolato. Le immagini che sono state divulgate in rete permettono di apprezzare come il team abbia adottato le tecniche tipiche della urban warfare: sfruttamento della morfologia con conseguente superiorità di fuoco nella fase di ingaggio, occupazione degli incroci per il dominio dell’area di intervento e per la valutazione delle opzioni di fuga, sfruttamento dell’effetto psicologico derivante dalla propagazione, veicolata dall’urbanistica, del rumore delle armi da fuoco e delle urla.

L’esito che purtroppo si è determinato come conseguenza dell’azione diretta (conseguimento del target, fuga ed evasione del team) ha sicuramente avuto, come presupposto imprescindibile, l’attuazione da parte dei militanti di una preparazione informativa dell’ambiente. Le procedure operative delle strutture militanti relative alla compartimentazione intracellulare, tese alla non compromissione della operation security (OPSEC), prevedono che tale attività venga posta in essere da elementi diversi da quelli interessati all’azione sull’obiettivo. Tale valutazione, sicuramente fatta anche dalle forze di sicurezza, potrebbe determinare l’ampliamento dell’investigazione nei confronti di altri elementi appartenenti al network.

  1. Il processo di target selection.

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Anche per il processo di targeting vale la riflessione sulla logica dell’OPSEC riferita alla preparazione informativa dell’ambiente operativo: sicuramente le fasi relative all’individuazione, sorveglianza ed assessment delle circostanze ambientali dell’obiettivo sono state effettuate da elementi diversi dal team di fuoco. Il soft target rappresentato dalla sede del giornale satirico è frutto di un casing deliberato teso al monitoraggio della “vita” dell’obiettivo e all’individuazione delle vulnerabilità che hanno consentito il compimento della missione. A questo processo di selezione deliberata, ne va affiancato uno di natura più prettamente hasty e riferito ai target di opportunità rappresentati dal poliziotto e dal passante: l’ingaggio e il compimento dell’azione permettono di stimare la misura della reattività del binomio di fronte a situazioni non previste a cui lo stesso si è dovuto adeguare per portare a compimento il compito.

Si possono individuare i seguenti criteri di selezione applicabili nel processo di targeting deliberato:

  • accessibilità: la redazione è ubicata al piano terra di un edificio il cui ingresso si affaccia su un piccolo slargo facilmente raggiungibile da più direzioni. Il fatto che il team abbia temporaneamente preso in ostaggio una dipendente per farle comporre la combinazione necessaria all’apertura della porta fa comprendere come sia stata svolta una azione di monitoraggio preventivo finalizzato a garantire l’accesso ai locali;
  • vulnerabilità: ancorché protetto da un dispositivo di polizia, il soft target pare altamente vulnerabile. L’applicazione del fattore sorpresa e il conseguimento della superiorità relativa raggiunto dal binomio di fuoco hanno premesso di annullare le minime misure di protezione;
  • effetti: l’azione ha prodotto effetti di magnitudine diversa. Dal punto di vista tattico, come evidenziato in precedenza, l’azione violenta ha permesso il conseguimento dell’obiettivo (assassinio e fuga/evasione); in termini di effetti di secondo e terzo ordine, il tipo di target colpito ha suscitato una particolare reazione emotiva transnazionale che ha interessato il richiamo a valori universali quali la vita democratica, la preservazione della vita individuale, la tutela della libertà di espressione, la libera e civile convivenza tra persone di religioni ed etnie diverse.

Infine, a differenza dei recenti eventi occorsi a Sydney o Ottawa, riferibili a situazioni di hostage taking, il raid in argomento è del tipo targeted killing: il team d’assalto ha deliberatamente cercato e assassinato individui selezionati all’interno della redazione. Il battle damage assessment finale infatti ammonta a 12 persone uccise e 11 ferite di cui alcune in modo grave.

  1. Il team d’assalto.

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Il team che ha eseguito il raid è composto da tre elementi, benché di particolare interesse risultino i due militanti che hanno materialmente svolto l’assalto; da quanto propagato in rete, infatti,  pare che il terzo elemento fosse incaricato di riprendere l’azione nella funzione di combat cameraman.

Il binomio che ha eseguito l’attacco è composto da due fratelli francesi di origine algerina: le autorità ritengono di averli identificati in Said e Cherif Kouachi, di 34 e 32 anni. Le informazioni rinvenibili nelle fonti aperte consentono di apprezzare come soprattutto Cherif sia persona di interesse operativo: il militante infatti risulta essere stato coinvolto, nella metà degli anni 2000, nell’operazione di polizia svolta nei confronti di un gruppo di militanti – il c.d. “19th arrondissement network” – che aveva posto in essere una serie di attività organizzative finalizzate al raggiungimento dell’Iraq per la successiva integrazione nelle fila del gruppo takfirin guidato da Abu Musab al-Zarkawi. La risposta delle forze di sicurezza permise l’individuazione ed il fermo di diversi appartenenti al network tra i quali lo stesso Cherif. Come conseguenza, nel 2008 l’algerino fu condannato a 3 anni di reclusione per fatti di terrorismo.

La polizia francese, nel corso di conferenze stampa relativa alle prime reazioni al raid parigino, ha posto in evidenza due elementi qualificanti che evidenziano il “network of networks” in cui sono inseriti gli autori del fatto:

  • il ritorno dalla Siria dei due fratelli nel corso dell’estate 2014, con ciò permettendo di catalogarli come due esempi dei c.d. foreign fighters di cui l’Europa e gli Stati Uniti sono particolarmente allarmati;
  • il loro contatto con un network terrorista yemenita, che corrobora quanto riportato da alcuni testimoni circa il riferimento fatto durante l’assalto dai due militanti circa la loro affiliazione ad al-Qa’ida nello Yemen, ovverosia il brand di al-Qa’ida nella Penisola Arabica (AQAP).

Il dato relativo al recente rientro dalla Siria, interpolato con la sedicente affiliazione ad AQAP, permette di rilevare come i fratelli Kouachi possano aver avuto l’opportunità di entrare in contatto con la struttura yemenita proprio nel corso del loro periodo nel paese del Levante. Infatti, è stato riportato, in ambito di forti aperte, come AQAP abbia inviato alcuni elementi chiave a supportare il gruppo c.d. Khorasan, basato in Siria e diretto da membri della al-Qa’ida Central. Un ulteriore elemento analitico a supporto della plausibilità delle affiliazioni, concorre la circostanza che il decimo numero della rivista on-line di AQAP “Inspire”, uscita nel 2013, includeva una sorta di poster “Wanted” con la indicazione “Dead or Alive For Crimes Against Islam”, con il quale veniva incoraggiati i lettori a sparare contro 11 persone ritenute responsabili di aver offeso l’Islam: tra questi spiccava il nome di Stephane Charbonnier, direttore del giornale Charlie Habdo.

Una considerazione che emerge dall’analisi del background biografico del binomio d’assalto è che a differenza dei recenti eventi avvenuti a Ottawa o a Sydney, il raid non è opera di homegrown militants o lone wolves autoctoni che si sono auto-radicalizzati sul web; ci troviamo infatti di fronte a militanti con esperienze operative e contatti qualificati nell’ambito di organizzazioni estremiste impegnate su due fronti particolarmente caldi (Levante e Penisola Arabica).

  1. Le tattiche, tecniche e procedure (TTP).

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La visione dei filmati permette di apprezzare alcune TTP particolarmente significative e relative all’atteggiamento tattico che il team d’assalto ha tenuto secondo il principio “fire and maneuver”:

  • fire: utilizzo del tiro selettivo, non a saturazione e sovente effettuato in modo alternato, anche in funzione di copertura;
  • maneuver: movimento binario ravvicinato che permette il coordinamento dell’azione per mezzo di comunicazione verbale, rodata fluidità di movimenti che consente di evitare l’emissione di disposizioni nel corso della manovra;

Infine, le immagini dei filmati permettono di valutare come, nella fase della manovra di sganciamento dalla scena dell’azione e al fine di guadagnare l’esfiltrazione per la successiva fuga e evasione, tali condotte sono tipiche di assetti militari specialistici.

  1. Le armi e l’equipaggiamento.

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Il team d’assalto ha condotto il raid utilizzando due tipologie di armi da fuoco:

  • come emerge dai filmati, i fucile d’assalto Ak47 e Ak74, armi di facile reperimento anche in contesti di criminalità comune e che sono la weapon-of-choice delle strutture combattenti, tra le tante, anche di ISIS e AQAP;
  • come riporterebbero dei testimoni, un non meglio identificato lanciarazzi che però non risulta essere stato impiegato.

Per quanto riguarda l’equipaggiamento, i due fratelli:

  • indossano uniformi nere con passamontagna e guanti, calzano uno scarpe da ginnastica e l’altro scarponcini neri di tipo militare;
  • sono dotati di corpetti antiproiettili e gibernaggio contenente caricatori per alimentare i fucili, indicatori della predisposizione di misure di protezione per il conseguimento della missione e di un sostegno di fuoco per un ingaggio prolungato.
  1. Il c.d. “snowball effect”.

L’evento critico generato dall’attacco di Parigi può essere interpretato come precursore di analoghe attività violente attuabili da elementi che fanno riferimento al network dei returnees dai teatri operativi dominati da Daesh o da AQAP. E’ evidente come la più temuta course of action è rappresentata dalla “replicabilità” di attività violente analoghe in altri urban settings europei o statunitensi.

La threat matrix si complica viepiù se si considera che, alla componente foreign fighters, si deve comunque aggiungere anche quella degli homegrown o lone wolves che ha dato prova di rappresentare un’ulteriore e perdurante minaccia in grado di colpire efficacemente ed in modo inaspettato.