Sabato 25 Aprile 2015 Nepal: terremoto dei poveri o prevenzione fallimentare? – by Barbara Lucini e Marco Lombardi

Il terremoto in Nepal di Sabato 25 Aprile è stato definito da molti come “il terremoto dei poveri”. Siamo davvero certi che questo evento naturale possa essere definito e ricordato così?

Le seguenti argomentazioni indicano alcune perplessità in merito:

  1. Parlare di “terremoti di classe” rimanda al ricordo nebuloso di una ideologia politica-culturale, che si pensava superata in favore di maggiori e più accreditate teorizzazioni scientifiche.
  2. Il concetto di classe appartiene alla “nostra” cultura occidentale, mentre le suddivisioni sociali che emergono dalla cultura millenaria di quella zona sono dettate più dal concetto di ceto, da una serie di credenze culturali e spirituali e soprattutto dalla differenziazione etnica, che nulla hanno a che vedere con il concetto di classe, peraltro emerso negli ultimi duecento anni e poco più, dalla nascita della rivoluzione industriale alla sua applicazione in campo politico riferendosi all’ascesa di gruppi professionali o sociali di pressione.
  3. Parlare di “terremoto dei poveri” è fuorviante perché in una nazione come il Nepal le cui attività economiche prevalenti sono l’agricoltura e il turismo e già sostenuta dagli aiuti internazionali anche in periodi di non emergenza, un terremoto di quella magnitudo non poteva che amplificare le reali condizioni di vita prima dello stesso evento.
  4. La questione dei turisti: differenze di trattamento per i turisti erano già emerso con lo tsunami del sud-est asiatico nel 2004 e spiegabili con il fatto di essere loro stessi una delle poche risorse del Paese devastato. In questa cornice narrativa appositamente creata dalle varie agenzie comunicative, si spiega anche la grande attenzione data agli escursionisti rispetto alla situazione di migliaia di persone.
  5. Non tutti i terremoti sono “terremoti dei poveri”. Sarebbe più utile affermare che ogni terremoto manifesta in modo palese, le reali problematiche di una Nazione o le criticità di un sistema sociale o culturale presente. E’ per questo che –purtroppo- gli eventi naturali sono così affascinanti: perché fanno chiarezza e mettono in luce i limiti di un sistema politico e le mancanze nella capacità di governo. Non si può barare di fronte ad un terremoto o a una inondazione. Sono lì per ricordarci gli errori nella nostra organizzazione e sono – purtroppo- una possibilità di riscatto dai propri errori o dalla propria inesperienza o scarsa lungimiranza. Sono lì per non diventare il “terremoto di nessuno” o quello del “dona 1 euro con un sms”. Iniziative lodevoli, ma fino ad un certo punto. Aiutare significa non diventare più indispensabili per qualcuno, significa promuovere competenze e capacità che possano essere utilizzate per lungo periodo, significa lasciar andare e farsi indietro quando non si è più indispensabili. Ad oggi a bene vedere gli aiuti umanitari assumono sempre più forme di pericolose dipendenza, invece di sostenere e favorire le realtà locali. I presidi permanenti delle varie organizzazioni umanitarie lo dimostrano e fanno anche emergere l’inefficienza delle misure preventive “tradotte e applicate in loco” da organizzazioni internazionali in realtà frammentate locali, distanti non solo linguisticamente, ma soprattutto culturalmente.
  6. Non è possibile pensare di risolvere questa crisi post terremoto e le altre che verranno, vincolando la popolazione, il sistema sociale ed economico di un Paese ad aiuti fatti pervenire a spot da agenzie che non sempre possono garantire la loro presenza secondo una continuità temporale e materiale.
  7. E’ interessante notare le varie iniziative sotto la dicitura disaster risk reduction promosse per la prevenzione dei terremoti in Nepal. Anche qui, come in altre Nazioni già devastate da varie problematiche, le azioni programmatiche di prevenzione, linee guida per scuole sicure e pianificazione sicura hanno dimostrato il loro limite e la scarsa applicabilità su un territorio che presenta livelli multipli di pericoli e una multidimensionalità di fattori interconnessi fra loro in grado di scatenare più alti livelli di vulnerabilità.
  8. Ultimo punto profondamente interconnesso a questa analisi è il messaggio trasmesso circa il numero dei bambini colpiti dal terremoto. In questi casi la retorica della comunicazione in emergenza parla di “una Nazione privata del suo futuro” ma è così? Sul piano statistico è dubbio: un evento critico colpisce “random” e le perdite nell’immediato impatto tendono a distribuirsi secondo la distribuzione della popolazione, senza creare un “crisi demografica”, che assomiglia più alla proiezione di un problema che riguarda “gli altri”, cioè chi legge la situazione dal suo punto di vista (paesi che si sentono vecchi?). I media insistono su due milioni di bambini che hanno bisogno di aiuto immediato (numeri dati sia da Save the Children sia da Unicef), che corrono rischio forte di ipotermia. Ora solo nei territori oltre i 3.600 metri la temperatura non sale oltre i 10° di massima (e ora andiamo verso l’estate) e la popolazione è concentrata nelle aree montuose solo per l’8% del totale. In sostanza, la forte insistenza sui bambini sembra più rincorrere una comunicazione affettiva ed emozionale, che mobilita le donazioni, piuttosto che esigenze emergenziali. Detto questo, non significa non intervenire verso questo segmento bisognoso, ma è fondamentale distinguere tra interventi e costi direttamente connessi all’evento per gestire la risposta immediata all’emergenza, e interventi e costi indiretti, che si riferiscono alla vulnerabilità sistemica del Nepal. Ciò vale non solo per operare con metodo adeguato ma anche per non “confondere” uso e impiego delle risorse.

La solidarietà internazionale è un’iniziativa lodevole, da ammirare per gli sforzi compiuti, ma necessita di una visione resiliente dell’intervento a breve e lungo periodo. Che manca oggi e non è stata presenti in decenni di attività.

Cercare di rendere una persona, un’organizzazione o una Nazione resiliente, significa trasmettere adeguati strumenti operativi, che favoriscano e incrementino le possibilità di gestire in modo resiliente scenari critici, con il massimo grado di consapevolezza delle proprie vulnerabilità e libertà di azione.