Terrorismo, crimini d’odio, estremismo o…..? – by Barbara Lucini

Definire un fenomeno come terrorismo, crimine d’odio ed estremismo non è mai stato così difficile come in questi ultimi mesi, durante i quali molte incertezze interpretative e di comprensione sono diventate sempre più evidenti, mettendo in luce una necessità non dichiarata e molto sottostimata di nuove categorie interpretative per fenomeni mai così complessi.

Una domanda importante a questo proposito è formulata dal The Washington Post dopo la sparatoria alla sinagoga vicino a San Diego, California: “Trump called the synagogue shooting a ‘hate crime.’ Will prosecutors be able to do the same?”[1]

La domanda di questi tempi è più che legittima e attraversa in modo profondo le strategie comunicative e politiche mondiali, dal momento che i fenomeni violenti sono pervasivi e diffusi in molti Paesi europei e non.

La questione è interessante per due motivi:

  1. pone in evidenza l’estrema plasticità o resilienza dei concetti cognitivi finora utilizzati come terrorismo, crimine d’odio ed estremismo;
  2. sottolinea la cesura fra opinione pubblica, politici e settore giudiziario nell’interpretazione di un evento e nell’attribuzione di un significato culturale a quanto accaduto.

In prima analisi tali considerazioni possono apparire come scontate o banali, quanto invece essenziali per le ricadute e gli effetti sociali che esse producono.

Senza riferirsi necessariamente alle teorie semiotiche, si può fare riferimento al processo socio – cognitivo definito NAMING ovvero la capacità di dare un nome ai concetti e agli eventi. E’ una pratica primordiale, che affonda le sue radici nella necessità linguistica – e quindi culturale –  dei primi gruppi umani di comunicare tra di loro e di rendere reali gli eventi e i fenomeni ai quali assistevano, andando quindi a definirsi, riconoscersi e identificarsi come un gruppo sociale specifico e differente dagli altri.

In questo modo, si rinforzava anche l’appartenenza a tale gruppo e il senso di sopravvivenza sociale.

Il naming è quindi pratica quotidiana messa in atto con scopi diversi sia dalle persone comuni sia dai media tradizionali, social media e social network: questi ultimi da identificare come tre canali comunicativi distinti con caratteristiche diverse in materia di orientamento dell’audience specifica che li caratterizza.

La definizione linguistica degli eventi è comunque multidimensionale in quanto altri livelli intervengono in questo processo sociale e comunicativo quali quello culturale, politico, legislativo.

Infatti, risulta impossibile prescindere dagli attuali contesti socio – culturali, politici e legislativi nella definizione di fenomeni violenti, così come è noto che quella che emergerà alla fine delle azioni legali e dei processi giudiziali sarà la verità giudiziaria distinta dalla Verità dell’accaduto. Alcuni eventi di questi ultimi mesi rinforzano la necessità di comprendere, che il piano cognitivo e comunicativo di definizione dell’evento risulta labile all’inizio del processo comunicativo, con fondamentali ricadute ed effetti specifici nell’atto di interpretazione.

Prendiamo in considerazione qualche esempio e il modo con il quale è stato definito dai media:

  • 15 Marzo Christchurch due sparatorie presso una moschea e un centro islamico, cinquanta persone morte e altrettante ferite. Definito come fenomeno violento provocato da un suprematista bianco. Nei primissimi minuti, la definizione era stata quella di neofascista;
  • 21 Aprile Sri Lanka attacchi suicidi a chiese e hotel, ordigni disseminati in tutto il Paese, centinaia le vittime: nelle prime dodici ore si era parlato di nazionalismo, successivamente ma ancora precedente alle rivendicazioni di terrorismo;
  • 27 Aprile Chabad of Poway, San Diego attacco a una sinagoga, un morto e tre feriti. Da subito viene definito hate crime;
  • 27 Aprile Sunnyvalke, San Francisco un’auto travolge dei passanti che l’autista credeva fossero musulmani. Definito come tentato omicidio con aggravante del razzismo;
  • 29 Aprile Viterbo, uno stupro viene definito da molte fonti come bullismo;
  • 30 Aprile Kosovo, il Financial Times[2] riporta la preoccupazione del Presidente del Kosovo, il quale sostiene il pericolo di un ritorno del conflitto etnico;
  • 01 Maggio Londra, la BBC[3] informa che la Metropolitan Police ha evidenziato un aumento di crimini d’odio a Londra dopo le sparatorie a Christchurch.

Tutti questi fenomeni violenti sono stati definiti dai vari canali comunicativi, in modo differente a seconda di specifici background geografici, culturali, politici, legislativi.

E’ interessante sottolineare come per esempio gli attentati in Sri Lanka siano stati identificati nell’immediato come riconducibili a una possibile matrice nazionalista; in seguito poi sono stati collegati a fenomeni di vendetta, ritorsione, rivalsa, rappresaglia in conseguenza degli attentati di Christchurch. Per poi allinearsi, ma non del tutto – data la persistenza di potenziali legami con il nazionalismo – con la matrice islamica in seguito alle rivendicazioni occorse.

Un altro caso interessante è quello di Viterbo: lo stupro di una donna da parte di due uomini facente parte di Casapound è stato definito da alcune fonti come un atto di bullismo: differenza definitoria sostanziale in ambito giudiziario rispetto ad una identificazione di stupro di gruppo.

Le radici di questa questione socio-linguistica attraversano quindi gli esempi sopra riportati ed interessano anche le definizioni di terrorismo ed estremismo.

Quest’ultima parola ha avuto il suo maggiore periodo di impiego soprattutto in ambito europeo negli ultimi venti anni con il riferimento a fenomeni violenti di stampo religioso, mentre l’estremismo politico seppur presente e vivo viene considerato come terrorismo a prescindere dalle matrici ideologiche.

In questo ambito si stanno sottostimando alcune questioni essenziali:

  1. il ruolo fondamentale, ma critico svolto dal concetto di etnia, che seppure relegato a spazi occlusi dell’immaginario collettivo riveste un ruolo essenziale nell’identificazione e interpretazione di sempre più fenomeni violenti. In particolare, i media tradizionali e i social, tendono a definire la componente etnica come aggravante tipica di un certo estremismo politico, mentre per esempio i conflitti etnico – religiosi sono limitati ad una visione di conflittualità persistente in zone esotiche del mondo, ma difficilmente riconducibili ad un estremismo di stampo etnico;
  2. l’intreccio transculturale è molto presente ed è uno dei motivi per i quali è così difficile stabilire in modo specifico verso quale tipo di fenomeno violento ci stiamo rivolgendo. Da qui quindi la necessaria comprensione, che in ambito giuridico le scelte peseranno nella determinazione degli eventi e delle eventuali colpe, come il The Washington Post citato supportava

Questi due punti chiariscono la necessità di comprendere e contestualizzare le categorie definitorie e interpretative, utilizzate nell’identificazione di un fenomeno violento in un immaginario collettivo.

Questa azione è essenziale per tre motivi:

  1. permettere una conoscenza delle dinamiche cognitive e di percezione di un gruppo sociale al fine di promuovere azioni di prevenzione di eventi violenti
  2. informare un pubblico più consapevole e meno influenzabile rispetto agli orientamenti politici e ideologici in corso
  3. promuovere azioni di contrasto a fenomeni specifici non solo sul piano giuridico, ma anche su quello socio – comunicativo

Data quindi questa peculiarità di definizioni sociali, culturali, comunicative e legislative di fenomeni violenti provocati da differenti forme di estremismo, torna anche la necessità di focalizzarsi sugli effetti reali e percettivi che la narrazione multidimensionale di essi sviluppa nell’audience in ascolto.

[1] https://www.washingtonpost.com/nation/2019/04/28/trump-called-synagogue-shooting-hate-crime-will-prosecutors-be-able-do-same/?noredirect=on&utm_term=.8ed975f2ca49

[2] https://www.ft.com/content/e08b7af4-6b46-11e9-a9a5-351eeaef6d84

[3] https://www.bbc.com/news/uk-england-london-48120278