Terrorismo IS e Libia: un’analisi fra resilienza istituzionale e politica – by Barbara Lucini

Due informazioni importanti si aggiungono alla narrazione terroristica che, fra alti e bassi, copre o dovrebbe coprire larga parte dello spazio informativo a disposizione dei mass media.

La prima notizia: l’informazione pubblicata ieri dal Daily Telegraph e sue fonti, ovvero che “sui barconi provenienti dalla Libia e diretti sulle coste italiane del Mediterraneo ci sarebbero terroristi infiltrati per portare il caos nel Sud dell’Europa” (www.ansa.it) risulta a detta di esperti inattendibile.

A questo punto quali concrete risorse abbiamo per stabilire con certezza definitiva, che fra tutte quelle persone, centinaia e più in una manciata di giorni, non vi siano potenziali terroristi? E’ noto infatti che spesso non è possibile procedere a controlli data la mancanza di documenti, rendendo quindi queste persone non identificabili, inoltre come dimenticare le immagini di immigrati che scappano dai centri di accoglienza?

Non si tratta, come spesso viene politicamente e strumentalmente fatto di stigmatizzare queste persone creando panico e pregiudizi nella popolazione in generale, quanto di prendere seriamente in considerazione, che il rispetto dei diritti umani in contesti di rifugiati politici e richiedenti asilo, non deve minare la sicurezza degli Stati ospitanti.

E’ inutile e controproducente concettualizzare e promuovere il vessillo dell’immigrato solo o come barbaro e quindi terrorista o come vittima e quindi bisognoso di aiuto.

In realtà sappiamo poco o nulla di queste persone: non conosciamo le loro lingue, le loro culture, le loro storie personali. Siamo spettatori di un fenomeno sempre più ingovernabile e incomprensibile, che si vuole sottacere perché quando non si è in grado di gestire una questione, la negazione della sua realtà è preferibile.

Tutto questo accanirsi di gruppi politici e non, fra chi dice immigrati “sì” e chi sostiene “no” ha portato alla situazione di massima vulnerabilità politica e istituzionale, nella quale ci troviamo in questi giorni.

Mass media e componente politica hanno dimostrato tutto il loro spaesamento circa le possibili opzioni e decisioni da prendere, all’interno di uno scenario di crisi, dove la rapidità di scelta è essenziale.

I tentennamenti di questi ultimi giorni, gli ipotizzati tentativi di mediazione (verso chi e per che cosa, rimangono questioni irrisolte) sono la prova che l’Europa sta vivendo da anni, dal 2008 e anche prima, una crisi non solo economica, ma culturale, politica e istituzionale.

La perenne frammentazione e dispersione delle identità nazionali, il continuo demandare decisioni al coordinamento di tutti hanno portato al caos istituzionale, che adesso potrà essere sfruttato dai terroristi o da chiunque altro avrà interesse a farlo.

Siamo vulnerabili di fronte a una minaccia praticamente sconosciuta, senza un apparato legislativo che permetta la tenuta di un sistema democratico e della sua efficienza organizzativa.

Per decenni si è creduto che la “resilienza istituzionale e politica” di una Nazione potesse basarsi sulla sua “securizzazione”, sulla possibilità di controllare, sorvegliare, spiare, nel credo che sapere fosse meglio di gestire.

Non è così: le basi reali ed efficienti per una pratica politica e istituzionale resiliente prevedono che le differenti parti politiche agiscano per il mantenimento ed eventualmente, il miglioramento delle condizioni e della qualità della vita delle persone che governano. Invece interessi economici privati hanno prevalso sulle necessità di governo, indebolendo e rendendo sempre più fragili quei nessi comunitari che adesso, in occasione di una seria minaccia terroristica avrebbero potuto essere utilizzati non solo in ottica difensiva o di controllo, bensì preventiva e proattiva: permettendoci quindi di allinearci alle pratiche dei più ampi contesti internazionali, potendo parlare la lingua comune di community resilience and community prevention.

Abbiamo perso la possibilità di costruire legami sociali di inclusione e partecipazione di tutti basati su patti chiari, legali e definiti e adesso è manifesta in tutta la sua drammatica evidenza, la fragilità di un sistema Paese, minato alle sue basi da una cronica mancanza di servizi sociali, scuole, sanità, cultura.

I veri fantasmi, le reali paure non sono solo l’IS alla porte dell’Italia – o forse già presente con i suoi adepti sul territorio, diretti verso mete e obiettivi a noi sconosciuti- quanto l’aver sperimentato in prima istanza, la nostra debolezza, che consiste in un affastellamento di idee che non orientano, anzi incrementano la destabilizzazione tanto ricercata da chi ha intenzione o interesse (perché di interessi economici mascherati o contaminati da credi religiosi si tratta) a colpire.

In tutto questo le istituzioni nazionali e internazionali sembrano avere scelto la strada della mediazione e la via politica: rimane ancora da capire chi seguirà questo compito, quali saranno i destinatari e che cosa ci sarà da perdere. Perché la mediazione come ogni relazione negoziatrice prevede una componente di perdita per entrambe le parti e poi quanto potrà durare?

Personalmente reputo tale via operativamente fuori tempo massimo: la mediazione è una modalità di gestione dei conflitti, che prevede l’avere comunque costruito una interazione fondata sul riconoscimento reciproco. In questo contesto è fin dall’inizio difficile comprendere chi sarà l’interlocutore o l’intermediario dell’altra parte, forse un IS a questo punto legittimamente riconosciuto dalla comunità internazionale? Ciò non farebbe altro che esaudire aspettative e richieste non così latenti (basta dare uno sguardo ai contenuti specifici della propaganda), che da anni scuotono e minacciano il mondo globale.

E’ interessante notare che le stesse logiche, che attraversano la prevenzione dei rischi naturali e quella della minaccia terroristica si costituiscano sulle medesime vulnerabilità strutturali e di sistema: mancanza di informazione e comunicazione; mancata conoscenza del potenziale rischio, non riconoscimento della minaccia, assenza di pratiche preventive, non rafforzamento dei legami comunitari presenti sul territorio che, in caso di disastro, potrebbero essere attivati come fattori resilienti locali.

L’analogia con il rischio sismico per esempio, non termina qui. Infatti proprio come il terremoto è un fenomeno naturale in sé ovvero non nasce già catastrofe, ma dipende dalle caratteristiche e dalle vulnerabilità del sistema sul quale impatta, forse già debilitato nelle sue componenti principali, così il terrorismo di qualsiasi matrice sfrutta le debolezze presenti sul territorio, nel contesto sociale e negli apparati istituzionali e di governo.

La principale cura non è mai l’attacco, ma la prevenzione.

E’ ovvio che adesso è tardi anche per questo. Uno dei possibili scenari – in parte già iniziati con le proteste di oggi da parte di alcuni cittadini a Venezia per il trasferimento di immigrati presso le strutture locali – è che in mancanza di una risposta concreta e di una presa di posizione reale, possano verificarsi situazioni di tensione e conflitto sociale fra differenti gruppi multietnici, gettando quindi il Paese o forse il sistema Europa, in un caos sociale di ancora più difficile gestione.