Attacco a Londra: effetto contagio – by Marco Lombardi

Oggi Londra, Parigi, Chalon sur Saone, … già dopo l’attacco di Barcellona del 17 agosto si ebbe un effetto virale che generò gli attacchi in Finlandia, Russia e Belgio.Barcellona portò a ragionare sull’effetto domino che si era generato; le modalità operative di un’apparente nuova forma organizzativa dell’attentato veicolare; le specifiche ragioni che avevano coinvolto la Spagna dopo tempo, con una quasi replica di Atocha2; lo scenario del terrorismo post-Califfale (qui il nostro commento).

Oggi, venerdì 15 settembre tiene banco l’attentato alla metropolitana di Londra, avendo sullo sfondo accoltellamenti di militari a Parigi, attacchi con martello a Chalon sur Saone, minacce ancora con coltello a Birmingham da parte di attentatori che usano spesso il grido “Allah Akbar” come rinforzo all’azione: più verosimilmente una nuova forma di “kiai” piuttosto che una affermazione di fede. Attacchi che restano sullo sfondo solo per ragioni temporali di successione o per il potenziale che si immagina quello di Londra avrebbe potuto avere.

Al solito impazza il dibattito mediatico inevitabile, e anche giusto, al quale io stesso non mi sottraggo. Ma…

Appunto ma è ormai inutile chiedersi:

  • Era attenzionato il terrorista? Come ha fatto a scappare al controllo?
  • E’ possibile una intelligence europea?
  • Era un lupo solitario o un foreign figther? O era un semplice matto?
  • Ma Daesh non le sta prendendo, visto che non riesce a fare troppi morti ultimamente coi suoi attacchi?
  • E poi, ma è proprio terrorismo? Islamista?

Le solite domande che corrono nei dibattiti alle quali sono convinto ormai il pubblico sia in grado di rispondere da solo.

Infatti, il primo risultato del perdurare di questa guerra, in cui il terrorismo è un attore principale e quotidiano, è stato quello di promuovere consapevolezza nei cittadini i quali ormai sanno che sono esposti a un rischio, ne sono consapevoli più di quanto le istituzioni vogliano ammettere nei loro confronti. Lasciamo perdere, dunque, quelle domande ormai banali, per provare ad andare oltre al fine di comprendere meglio un fenomeno che, come ho spesso scritto, durerà a lungo.

Quanto è accaduto oggi è presente nelle pagine della serie estiva, pubblicata da Daesh, intitolata “Knights of Lone Jihad”. Ormai siamo al quinto numero, al ritmo di oltre uno a settimana, di un manuale del jihadista che in pochissime pagine, tre o quattro, suggerisce metodi semplici di attacco. In queste settimane siamo passati dall’uso del veleno, ai coltelli, ai furgoni, all’uso del fuoco e degli acidi, al provocare incidenti d’auto: suggerimenti mai declinati in procedure specifiche di training ma, piuttosto, in semplici descrizioni di azioni già presenti nei cartoni animati di Willy Coyote. Si tratta di azioni che ciascuno ha nell’immaginario, dunque semplici, ripetibili senza necessità di programmazione, di scarsissima efficacia in termini di vittime ma con alto ritorno comunicativo; soprattutto se esprimono la loro capacità virale, cioè il loro potere imitativo, che favorisce il dipanarsi di una catena di attacchi. Il medesimo manuale invita alla cautela nella azione, ben lontano dal proporre l’immolazione del terrorista che deve poter agire ancora, e non sottolinea alcuna necessità di rivendicazione dell’atto, perché esso è auto-evidente nella interpretazione del nemico e che la platea dei social non tarderà ad appropriarsene spontaneamente. Al Marchio Nero di Daesh è più che sufficiente.

Quei matti, pazzi e spostati di terroristi: appunto, quello sono e basta tanto che non ci interessa scoprire altro e l’attributo di pazzia diventa il nostro escamotage per normalizzare ed esorcizzare l’eccezionalità dell’atto terroristico. In pratica: un tizio ha ammazzato due persone a coltellate gridando “Allah Akbar” ma è solo un matto, dunque non importa. Quella esemplificata è una tendenza in atto, certamente per abbassare lo stato di allarme nelle città, che è dis-funzionale a una risposta efficace perché ormai Daesh non richiama ormai più alle motivazioni profonde di fede, ma conta soprattutto sulla sua credibilità ed efficacia nell’evocare possibili esplosioni di rabbia contro il “tuo” nemico. Un nemico che è poi anche il “suo” se l’attacco avviene con certi mezzi e in certi contesti. Il risultato è che, al contrario di quanto da noi auspicato, senza più un legame alle motivazioni dell’autore e della causa, il ventaglio di quanto può essere marchiato Daesh si amplia a dismisura e anche il matto, a pieno titolo, è arruolato.

Stiamo parlando di quel Daesh che sul terreno le prende e che nei suoi attacchi in Europa colleziona fallimenti: i suoi bombaroli hanno fallito prima, durante e dopo Barcellona. Anche questo è tutto vero non fosse che si misura ancora il successo della guerra in corso con i vecchi parametri del conflitto tradizionale: oggi le vittime non sono il fine dell’azione ma lo strumento per raggiungere l’obiettivo di fare paura. Sono convinto che Daesh preferirebbe e ammazzare di più e fare più paura ma il terrorismo è una organizzazione resiliente, capace di imparare dalle batoste che prende per giocare al meglio le carte che gli sono restate in mano: esso è mutevole e adattivo, affatto schizzinoso nell’ampliare i propri strumenti e, dunque, il Daesh che sul campo le prende diventa pericoloso in altra forma in Europa.

Stando così le cose aspettiamoci catene di attacchi spesso a bassa intensità, frequenti “insuccessi” dovuti a incompetenza, strumenti della quotidianità trasformati in armi letali dalla fantasia di un cortoonist molto seguito. Come sappiamo affrontiamo un nemico che evolve e cambia: in questo sta il suo vantaggio e non nella necessaria efficacia della “letalità” ricercata nel singolo attacco. La strategia è pertanto la viralità, la ripetizione facile del gesto senza la motivazione, senza alcuna richiesta di immolazione né di rivendicazione, il cui vantaggio è la rapidità del ripetersi degli atti.