“Autobus in Fiamme”: cosa è accaduto – by Giacalone, Mori, Spagna

Perché è importante fare chiarezza sui fatti avvenuti il 20 marzo tra Crema e Milano,  gli eventi dell’autobus della Paullese? Sono molte le ragioni per parlarne. Una su tutte: è stata sfiorata una delle stragi più gravi che il nostro Paese, l’Europa, potesse vedere.

Non possiamo lasciare che l’assenza di vittime, il buon esito della vicenda, determini la qualità e quantità di riflessioni su quanto accaduto.

Partiamo quindi con 1) la ricostruzione degli eventi, alla quale segue una riflessione sulla dinamica operativa intesa sia come 2) modus operandi dell’attentatore, sia come 3) reazione di sicurezza partecipata delle vittime, poi segue una 4) riflessione storico-fenomenologica e infine 5) una di carattere sociologico.

1 – Ricostruzione degli eventi

Ousseynou Sy, cittadino italiano, nato in Francia da genitori senegalesi, è un 47enne guidatore di autobus per l’azienda di trasporti Autoguidovie. Compie quotidianamente, da qualche mese, il servizio di trasporto degli studenti nella tratta che separa la scuola media Giovanni Vailati di Crema (Cremona) dalla palestra ubicata a pochi minuti di distanza.

Il 18 marzo, dopo aver prelevato con l’autobus gli studenti, l’uomo, pare deviare il suo tragitto abituale e, ripreso da un insegnante passeggero, ritorna sul percorso prestabilito.

Il 19 marzo Sy viene immortalato dalle telecamere di un distributore di carburante mentre è intento a riempire due taniche di gasolio.

Il 20 marzo, alle ore 11 circa, l’autobus guidato da Sy preleva 54 persone dalla palestra della scuola media: si tratta di 51 studenti minori, 2 insegnanti e una bidella.

L’esatta cronologia degli eventi da qui in poi non è perfettamente chiara. Essendo il viaggio prestabilito della durata di pochi minuti, i passeggeri si accorgono già nei primi momenti che il percorso, dalla palestra alla scuola, era stato deviato (proprio come già accaduto 2 giorni prima).

Sy conduce l’autobus fuori da Crema e imbocca la Strada Provinciale 415, nota come “Paullese”, in direzione Milano. Lungo il tragitto compie alcune soste rendendo esplicita la minaccia ai suoi ostaggi: usa un coltello per costringere la bidella e gli insegnanti a legare i bambini con delle fascette da elettricista e a sequestrare loro i cellulari:  qualche telefono “sfugge” alla requisizione e qualche ammanettamento non viene compiuto con efficienza.

Nelle diverse soste Sy, aiutato da alcuni ostaggi sotto minaccia, disperde il gasolio su schienali, tende e pavimento, blocca le porte e usa una vernice spray per oscurare alcuni dei vetri dell’autobus.

Sono le 11:27 quando, dal telefono di uno dei ragazzi, parte la prima chiamata ai genitori che allertano la polizia. Le forze dell’ordine localizzano il mezzo e si mobilitano per bloccarlo. Nel frattempo, dalla scuola media c’è preoccupazione per il ritardo: giunge una chiamata a uno dei telefoni in possesso di un professore, il quale, mantenendo aperta la chiamata, porge un ulteriore “orecchio esterno” su quanto accade all’interno del bus. Non solo, partiranno almeno altre due chiamate al 112 dal telefono di un professore e di uno dei ragazzini che forniranno ulteriori preziosi dettagli sulla dinamica (quali la presenza del carburante e il possesso di un accendino da parte di Sy).

Sono le 11:39 quando una pattuglia dei carabinieri intercetta il mezzo in corsa. Probabilmente è a questo punto che abbiamo la telefonata di Ousseynou Sy ai Carabinieri che afferma: “…sulla pista di Linate! Non voglio vedere nessuno nell’arco di chilometri! Non sparate al pullman: è tutto gasolio!”.

Alle 11:45 il pullman forza un posto di blocco dei Carabinieri, procede con un’andatura brusca ma lenta speronando le auto ferme: gli operatori delle forze dell’ordine riescono a infrangere i vetri posteriori dell’autobus e a forzare l’apertura delle porte facendo evacuare gli ostaggi che rischiano lo schiacciamento per via del veicolo ancora in movimento. Dopo due minuti, avviene l’arresto di Sy sul bus ma l’incendio è già stato innescato. L’attentatore infatti riporterà ustioni alla mano mentre le vittime, salve, risulteranno avere delle intossicazioni non gravi per via dei fumi del combustibile.

2 – Modus operandi: il nesso tra deterrenza e premeditazione

La modalità operativa dell’attentatore è ricca di elementi di deterrenza e premeditazione ed è caratterizzata da un elevato grado di complessità, specialmente se si considera che il soggetto non sembra aver avuto supporto né prima né tantomeno durante tutta la dinamica criminosa.

Ricapitoliamo innanzitutto tecnologie e materiali adoperati nell’evento:

  • 2 taniche di combustibile;
  • 1 o 2 accendini “accendi-gas”;
  • Un coltello;
  • Una pistola;
  • Telefoni cellulari;
  • Fascette da elettricista;
  • Vernice spray;
  • Un veicolo pesante.

La preparazione di tutti questi elementi denota pienamente l’alto livello di premeditazione degli atti: nulla poteva essere casuale.

Come dicevamo, due giorni prima del sequestro, il lunedì 18, Sy avrebbe provato a deviare dal solito percorso palestra-scuola per poi ritornare sul tragitto corretto su richiesta di un professore passeggero. È possibile che Sy avesse sentito già in quel momento la spinta a compiere un atto clamoroso. La mancanza di programmazione lo avrebbe fatto desistere dinnanzi al primo ostacolo: come posso proseguire la mia corsa deviata senza un elemento di deterrenza? Ecco che scatta la necessità di perfezionare la premeditazione.

Il giorno dopo – martedì 19 – infatti Sy è stato visto riempire due taniche di carburante. È la preparazione di un fattore di minaccia e deterrenza. Un pullman a rischio di incendio costituisce una minaccia per gli ostaggi e un fattore di deterrenza per l’intervento delle forze dell’ordine. Infatti, Sy lo sfrutterà a suo vantaggio comunicando ai Carabinieri che, data la condizione di infiammabilità del veicolo, non avrebbero potuto usare armi da fuoco contro di lui. Inoltre, da un punto di vista terroristico, avere un veicolo pronto a esplodere/bruciare costituisce un piano B qualora le cose dovessero andare storte: tant’è vero che Sy avrebbe appiccato l’incendio quando alle strette, poco prima di essere bloccato ed arrestato.

Altro fattore di deterrenza premeditato sarebbe stato costituito dalla verniciatura dei vetri a mezzo dello spray (anche se, fortunatamente, non sembra essere stata compiuta in modo particolarmente efficace): in questo modo si sarebbe resa più difficoltosa 1) l’opera di un tiratore delle forze dell’ordine, aumentando i rischi di colpire il bersaglio sbagliato e 2) la capacità degli ostaggi di fornire dettagli sull’ubicazione del veicolo.

Ulteriore elemento deterrente è quello più ovvio dell’hostage taking: gli ostaggi stessi. Deterrenza resa ancora più forte dalla giovane età delle vittime. Sy è chiaramente consapevole della posizione di potere che gli fornisce la presenza degli ostaggi (soprattutto se così giovani!) tanto da mantenere forzatamente accanto a sé, al posto di guida, due ragazzi.

Il coltello, strumento semplice ma efficace, serve a Sy per mantenere alto il livello di minaccia sugli ostaggi adulti obbligati a prestarsi come complici del soggetto. Bidella e insegnanti saranno costretti a legare tutti presenti con le fascette. Presumibilmente, nelle ultime fasi della corsa, Sy costringerà uno degli insegnanti a chiamare i Carabinieri per informarli delle sue intenzioni e della presenza diffusa del carburante.

Il soggetto utilizza il mezzo pesante per agire di sfondamento sui posti di blocco delle forze dell’ordine.

Sy esprime la volontà di raggiungere la pista di Linate usando gli ostaggi come scudi umani. A questo punto, se non ci fosse stato l’arresto del veicolo e del soggetto, avremmo potuto vedere due scenari:

  • Ramming incendiario (ovvero l’uso del veicolo pesante in funzione di ariete e al contempo di “molotov”) su Linate, con uccisione di pedoni e ostaggi;
  • Ramming su Linate, indifferente se incendiario o meno, con tentativo di raggiungimento della pista, direttamente con l’autobus o a piedi, usando i bambini come scudi umani (qui entrerebbe in gioco la pistola!), con eventuale dirottamento di un mezzo aereo.

3 – La sicurezza partecipata delle vittime

È utile prendere il caso del “bus della Paullese” come punto di partenza per una riflessione sulla sicurezza partecipata, della cui importanza abbiamo già parlato più volte.

La sicurezza partecipata si può definire come quel derivato educativo e operativo di una cultura della sicurezza diffusa, dove vengono istruiti alla gestione dell’emergenza non solo gli organi statali formalmente incaricati ma anche una cittadinanza responsabilizzata e consapevole del ruolo fondamentale che ha la collaborazione tra tutti gli attori coinvolti in una situazione di crisi.

Con tutta probabilità gli eventi del 20 marzo non sarebbero stati così “fortunati” se non ci fosse stati elementi di reciproco aiuto tra vittime-vittime e vittime-FF.OO.

I telefonini volontariamente sfuggiti al sequestro, le fascette strette male e le telefonate riportanti dettagli sulla dinamica (luogo, pericolosità, intenzioni del sequestratore) sono state fondamentali perché andasse tutto nel migliore dei modi.

È stato un caso? Probabile. Forse una coincidenza di fortunati eventi, sommati ad alcune sviste dell’aggressore. Proprio per questo c’è da interrogarsi se e come, in una futura situazione analoga, le vittime dovranno essere preparate su quale siano le mosse migliori da fare e quali da evitare per facilitare l’intervento delle forze dell’ordine e un epilogo ideale.

Questo evento dimostra bene quale sia la consapevolezza diffusa tra la gente del rischio “terrorismo”: una consapevolezza che non può più essere ignorata dalle istituzioni troppo spesso impaurite, tanto da preferire il silenzio, e dunque mute di fronte alla domanda “cosa devo fare se….”. Ora tocca a queste istituzioni avviare percorsi formali di collaborazione tra cittadini e operatori di sicurezza.

4 – Riflessione Storica e Fenomenologica

Le immagini dei resti della carcassa del pullman dilaniato dalle fiamme non possono non far tornare in mente quelle dei bus israeliani bersagliati dalle bombe dei terroristi palestinesi negli anni ‘90. Nonostante contesti e modalità operative siano differenti, le immagini sono terribilmente simili dato che si tratta sempre e comunque del drammatico epilogo di un attacco perpetrato a danno di civili a bordo del mezzo.

Un mezzo, il pullman, più volte preso di mira dai terroristi palestinesi anche in funzione di veicolo dirottato, come quello del 7 marzo 1988 a Dimona, sempre in Israele, quando una cellula formata da tre attaccanti si impossessava di un bus di civili. L’episodio si risolse con l’assalto delle unità anti-terrorismo “Yamam” e con un bilancio finale di tre civili morti, otto feriti e tutti e tre gli attentatori eliminati.

Una strategia, quella dell’attacco ai bus (tramite bomba o dirottamento), ripresa anche dai terroristi islamici ceceni, come dimostra l’attacco a un pullman di studenti perpetrato il 21 ottobre 2013 da Naida Asiyalova che si fece esplodere causando la morte di otto persone e il ferimento di trentasei.

L’autobus rappresenta un target sensibile per il terrorismo per tutta una serie di fattori:

  • gli spazi ristretti che concentrano in pochi metri un cospicuo numero di persone, incrementandone così la vulnerabilità e le difficoltà in caso di raid da parte delle forze di sicurezza;
  • gli effetti devastanti in caso di detonazione di ordigno a causa dell’elevata concentrazione delle vittime;
  • le limitatissime vie di fuga che, se bloccate, rendono il mezzo una vera e propria trappola;
  • la possibilità di poter guidare il mezzo, non solo per il trasferimento di eventuali ostaggi, ma anche per utilizzarlo come eventuale “ariete” o veicolo-bomba contro altri target esterni.

5 – Riflessione sociologica

L’azione di Ousseynou Sy mette in evidenza un processo di escalation della violenza stragista che si ripercuote a livello globale. Il terrorismo della quotidianità a cui ci ha abituato il Daesh deve essere considerato il punto di partenza dal quale leggere la realtà attuale, un terreno capace di generare e mantenere un conflitto ideologizzato che si materializza in azioni violente come quella perpetrata il 15 marzo 2019 da Brenton Tarrant, eco-fascista e “protettore” della razza bianca, che ha ucciso circa 50 persone in Nuova Zelanda e come quella del 18 marzo quando Gokmen Tanis ha aperto il fuoco su un tram ad Utrecht uccidendo tre persone e ferendone altrettante.

Il concetto di ideologia come chiave per comprendere l’andamento di questi fenomeni non è sufficiente. Bisogna fare i conti con un’altra prospettiva, iniziando a considerare che non è tanto la specifica ideologia a catalizzare i comportamenti violenti di soggetti radicalizzati, ma è il diffuso utilizzo della violenza in quanto tale, come forma espressiva, a offrire concretezza a frustrazioni/pulsioni/intenzioni. In altre parole, la modalità espressiva violenta, enfatizzata dalla comunicazione mainstream, diventa sempre più accessibile a tutti e viene interiorizzata dai singoli non nella sua matrice ideologica ma nei suoi effetti operativi. L’ideologia è una delle chiavi di lettura per comprendere il singolo caso, ma non permette di interpretare, se non in maniera limitante, il sistema all’interno dei quali si concretizzano i vari comportamenti aggressivi.

L’infografica seguente mostra una serie di attacchi terroristici avvenuti tra marzo e aprile 2017. Alcuni di questi sono stati rivendicati e/o attribuiti al califfato, altri sono stati solamente inquadrati all’interno della matrice jihadista. L’esempio mette in evidenza come gli attori in questione hanno agito in maniera violenta secondo una ideologia jihadista. È lampante l’effetto domino e quindi il processo di catalizzazione dei comportamenti che si sussegue.

Si potrebbe considerare questi eventi solamente come l’esito di un processo di islamizzazione della violenza. In realtà quello che si sta progressivamente rinforzando è un processo contrario, di “violentizzazione” delle idee e dell’espressione delle stesse. Utilizzando il pensiero di Athens[1], i soggetti all’interno di questo processo hanno l’obiettivo di ottenere una rivalsa nei confronti dei propri antagonisti, traslando loro auto autopercezione da vittime a persone potenti in grado di tenere sotto scacco altre vite umane:

  • Brenton Tarrant: “Ho viaggiato molto, io non odio i popoli nelle loro terre ma chi invade l’occidente, ho preso la decisione da solo per garantire un futuro alla mia gente […]”
  • Ousseynou Sy: “L’ho fatto per l’Africa, perché gli africani restino in Africa e così non ci siano morti in mare […] Sentivo le voci dei bimbi morti in mare che mi dicevano di fare un gesto eclatante

È la violenza in sé a divenire elemento catalizzatore, modalità espressiva sempre più fruibile operativamente, sempre più ordinaria, non più confinata a eventi catastrofici e puntuali nel tempo (come gli attacchi alle Twin Towers, Madrid 2004, Londra 2005) ma eventi concatenati che si alimentano a vicenda all’interno di un continuum.

Sempre nell’immagine si schematizza anche il susseguirsi dei tre eventi “Tarrant-Tanis-Sy”. Si evidenzia il processo di catalizzazione dei comportamenti aggressivi, di portata globale, rafforzati dalla comunicazione mediatica e social – eclatante nel caso del video live ripreso durante il massacro dallo stesso Tarrant – ove ogni evento stragista diviene un vettore di attivazione/catalizzazione del comportamento violento per un nuovo soggetto radicalizzato; non perché questi condivida ideologia e obiettivi ma perché sposa la modalità espressiva del disagio in termini violenti. L’inclinazione stragista diventa accessibile, ordinaria, quotidiana, risolutiva: per dirla alla Burdieau questa propensione violenta entra a far parte di un habitus (globalmente diffuso e diffondibile), ovvero si inserisce in una serie di disposizioni che compongono il registro di azione/reazione degli individui, dei nuovi terroristi.

Ci troviamo in un periodo in cui, accanto al “classico” terrorismo ideologico che strumentalizza il comportamento violento per raggiungere i suoi fini, assistiamo ad una forma di violenza globalizzata che, per giustificare a sé stessa la propria esistenza, si veste della scusa ideologica.

Una differenza apparentemente sottile ma che per le analisi teoriche e per le logiche di prevenzione operativa può sconvolgere drammaticamente le carte in tavola.

[1] Strano, M. (2003). Manuale di Criminologia Clinica. SEE Editrice, Firenze.