Dacca: l’atto di fede – by Davide Scotti

I tragici eventi in Bangladesh mostrano il sadismo degli uomini verso altri uomini dove i primi si dichiarano migliori dei secondi per una qualsiasi caratteristica più o meno reale. La scelta della presa di ostaggi e la successiva distinzione tra musulmani e non-musulmani attraverso la recitazione del corano pone ciascun credente di fronte alla scelta di mostrare la propria fede consapevole che l’altro diverso da se sarà soggetto alla morte.

Nel ristorante gli ospiti musulmani recitarono i versetti certi che la propria appartenenza avrebbe permesso loro di uscire mano nella mano ai propri figli mentre altri venivano poi torturati ed uccisi. La paura della morte smette quindi di essere condivisa tra tutti i presenti come nel caso di un attentato all’aeroporto per diventare esperienza degli altri che vengono condannati a morte nell’attimo stesso in cui ci si differenzia. Apparentemente, il musulmano che rapito insieme ad altri recita il corano per aver salva la vita contribuisce esso stesso alla morte dei non-musulmani con piena e ormai inevitabile consapevolezza.

In questo senso la più volte citata Sura 5 Versetto 32 secondo cui :

«chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità».

dovrebbe frapporsi alla richiesta di recitare il Corano per avere salva la vita. Anche se il buon musulmano considerasse l’altro come l’uomo che ha sparso la corruzione sulla terra, il versetto 45 della stessa Sura descrive colui che rinuncia al contrappasso come in maggior gloria perché «per amor di Allah, varrà per lui come espiazione».

L’atto di fede del buon musulmano potrebbe essere dunque il nascondimento della propria fede, esperienza concretamente avvenuta in Kenya a dicembre 2015. Jihadisti di al Shabaab attaccarono un pullman con 60 persone a bordo chiedendo ai musulmani di separarsi dagli altri ma questi si rifiutarono e anzi prima di essere fermati si affrettarono a mascherare gli altri con delle velature. Il gesto fu tanto inatteso da far desistere gli assalitori dalla carneficina che, come avvenuta in precedenza, si sarebbe compiuta a danno dei non islamici.

I recenti tragici avvenimenti non rappresentano un’esclusiva musulmana ma uno tra i molteplici atti persecutori che potrebbero vederci coinvolti nel ruolo di “abili a sopravvivere”, il musulmano dei recenti episodi, oppure “non abili a sopravvivere”. Ciascuno ha quindi da chiedersi cosa avrebbe fatto sul pullman nel Kenya o nel Bakery decidendo quale sia l’atto che più di altri onora il proprio credo tra la dimostrazione dell’appartenenza tanto musulmana quanto cristiana o ebraica e il suo nascondimento in quanto indifferenziati essere umani. In questo dibattito utile ad ogni confessione, il credente può rinnovare un’esperienza di fede che non nasce dalle differenze, spesso oggetto della radicalizzazione, ma dalla comunione di esperienze che nei recenti attentati ha avvicinato ogni vittima all’altra a prescindere dalla fede, dalla nazionalità o dal colore della pelle.