“Ich bin Deutscher! Ich bin hier geboren!” Identità sconnesse e violenza estrema nelle ultime ondate di terrore in Germania – by Barbara Lucini

“Sono tedesco! Sono nato in Germania”: questa frase urlata in modo tanto rabbioso quanto difensivo da Ali David Sonboly dovrebbe diventare il simbolo delle violenze occorse in questi ultimi giorni in Germania, ma anche Francia e USA, così come potrebbe essere una valida quanto oramai sottovalutata risposta alla domanda Warum? Perché?

Sembra infatti sempre più evidente che l’affannosa ricerca di una identità sociale stabile e riconosciuta, qualsiasi essa sia, sia la spinta ir – razionale che ha portato alle folli gesta degli attacchi a Monaco, Reutlingen, Ansbach e prima ancora sul treno a Heidingsfeld e Wurzburg .

Come è stato giustamente fatto notare, le profonde radici sociali e culturali degli attacchi, il loro ancorarsi ad un senso di non appartenenza, di rifiuto e radicalizzazione travalicano le frontiere e i confini, a volte autoimposti, del terrorismo islamico o di matrice estremista.

Il dato sconcertante a parere di chi scrive è che i fatti accaduti in Germania in questi ultimi giorni sono figli di un malessere radicato e poi strumentalizzato da Daesh e media, che non si cova solo nelle periferie di grandi città, ma anche in piccoli centri urbani dove comunque i fenomeni di socializzazioni versano in situazioni di agonia.

Ancora più sconcertante da una prospettiva metodologica la gestione dei flussi comunicativi durante l’attacco di Monaco, sia da parte delle autorità tedesche sia da parte dei media, che può essere definita come una gestione cacofonica della comunicazione in emergenza.

Si parlerà ancora in futuro di quanto accaduto in Germania, un misto fra attentati rivendicati da IS e non, dove però le componenti essenziali della partita in gioco vengono agite su altri livelli di analisi finora sottaciuti o sottostimati dalla corrente mainstreaming della governance in carica e da chi dovrebbe gestire e dare risposte ad una situazione sempre più allarmante.

Gli aspetti da considerare per i fatti tedeschi in particolare possono essere così riassunti:

  1. i conflitti interetnici, qui trattati anche se politically uncorrected per gran parte dell’opinione pubblica tedesca sono e devono essere al centro dell’attenzione, per poter meglio comprendere le dinamiche non solo operative, ma anche sociali, di fenomeni nuovi e portatori di diverse sfide. In Germania la tendenza è di evitare di parlare di xenofobia, razzismo, perché il peso della Storia passata non diminuisce con il passare del tempo. All’apparenza sembra una società che ha compiuto grandi passi di riconciliazione con una memoria drammatica e ingombrante, ma in sottofondo rimane sempre un rapporto difficile con l’opinione pubblica internazionale ed esponenti di alcune diverse visioni politiche.

Detto questo, la questione etnica e il conflitto di identità lo dimostrano e ne è un esempio il video della discussione intrattenuta fra i due testimoni tedeschi al balcone e Ali David Sonboly scandita da insulti da parte dei cittadini tedeschi e offese ai Turchi (altra grande questione tedesca in un momento estremamente difficile per la Turchia e quindi per i rapporti fra le due Nazioni) in un delirio di scarsa capacità di negoziazione – forse qualcosa si sarebbe potuto fare invece di istigarlo alla violenza – e le frasi di riconoscimento espresse dal ragazzo: “sono tedesco, sono nato in Germania”, come a dire sono uno di Voi.

La pista inoltre che sta emergendo sembra essere quella di un odio profondo da parte del ragazzo verso turchi e arabi, che confermerebbe quindi l’importanza della frase “Io sono tedesco!” e la prevalenza di una sua identità tedesca rispetto a quella iraniana forse in risposta ad una percezione diversa da parte di altre persone.

Questa ipotesi se confermata, aprirebbe nuove frontiere per le analisi sugli estremismi, facendo emergere la necessità di meglio comprendere i processi di socializzazione e formazione identitaria.

Da un punto di vista operativo e di crisis management, i conflitti interetnici possono essere letti come strumento e risultato delle dinamiche di una Terza Guerra Mondiale, domestica, condotta a livello micro, diffusiva e pervasiva non solo degli ambienti fisici, ma anche delle percezioni individuali e collettive tipiche della soglia di allarme e di sicurezza.

Senza addentrarci in riflessioni antropologiche, l’etnia definisce e produce un senso al mio io individuale e al me riconosciuto dalla società, ne abbiamo bisogno, un disperato bisogno per capire chi siamo e che cosa vogliamo. La negazione di un processo identitario stabile e chiaro determina forme di appartenenza mista, frammentata dove si perdono le opportunità di vedere, per esempio in una doppia appartenenza, una risorsa e non un limite: anche se tale interpretazione dipende molto dai ritorni e dalle possibilità che ci vengono date dall’ambiente circostante.

  1. Non è un mistero per esempio che le città tedesche riproducano anche a livello architettonico le divisioni che poi prendono vita nella società civile.

Si pensi alla separazione fra quartieri popolari destinati a cittadini tedeschi con problemi economici o sociali, ai quartieri per gli immigrati e ai quartieri per i cittadini tedeschi della medio e alta borghesia. Perché senza scomodare il sociologo M. Weber, la società tedesca è ancora suddivisa in base al ceto e alle disponibilità economiche.

Quando non esistono barriere fisiche che si possano prestare a questa separazione, interviene l’uomo con la costruzione di ponti o strade periferiche che possono collegare i quartieri “altri”.

Molto qui dipende anche da un mercato immobiliare, che vede pratiche oscure di affitto di case popolari da parte degli inquilini (immigrati turchi in prevalenza) ad immigrati o ignari turisti: succede a Berlino, ma anche in altre città come Stoccarda.

Come si diceva barriere fisiche queste, che si traducono in vulnerabilità manifeste adatte per essere utilizzate dal primo che ne ha consapevolezza e profonde fratture sociali pronte ad esplodere senza preavviso

  1. La questione urbana e la gestione dell’ordine pubblico sono diventati sempre più importanti in una Germania, ma anche Austria dove a pochi passi dal centro di grandi città (come Vienna per esempio) non è difficile trovare gruppi di giovani uomini musulmani, impegnati in attività di proselitismo per avvicinare le persone alla lettura del Corano, con tanto di copia del testo sacro in mostra. Particolare degno di nota, visto che la conoscenza del Corano è stata una determinante di sopravvivenza durante l’attacco a Dacca
  1. La delicatezza richiesta nel trattare il binomio rifugiati/ immigrati in attesa di documenti = terroristi.

Non si hanno dati oggettivi a proposito, ma è un dato di fatto che a Mohamed Daleel, il killer di Ansbach era stato rifiutato il visto per due volte e quindi le motivazioni del gesto potrebbero essere ritrovate in quel coacervo di rifiuto, risentimento e disagio vissuti uniti ad una radicalizzazione incerta. L’interesse maggiore qui risiede nel capire quali di queste componenti sia la causa originale e quali i prodotti e gli effetti secondari. Operazione complessa, ma dalla quale non si può prescindere

  1. La stessa delicatezza con la quale si deve parlare di un altro binomio, quello di rifugiati/immigrati e disturbi psichici.

Tempo fa proposi un progetto focalizzato sullo studio della resilienza dei migranti al loro arrivo, le fasi di sistemazione e le loro percezioni. Ovviamente non fu di interesse per nessuno, troppo impegnati a tendere le mani per portare in salvo i migranti, ma poco inclini a pensare che cosa avessimo da offrire loro sul lungo periodo, una totale assenza di progettualità.

Qui si denota un altro punto fondamentale dell’analisi ovvero il ruolo del Terzo settore, dei servizi sociali e delle organizzazioni di volontariato: molti degli attentatori in Germania erano conosciuti dai servizi sociali per i loro disagi sociali e clinici, nonostante questa presa in carico e percorsi di supporto non è stato possibile evitare il peggio.

Ritorna quindi il tema della resilienza sia organizzativa del sistema-società che accoglie – anche questo tema pressoché sconosciuto se non per qualche raro caso studio condotto in USA in seguito alle operazioni di displacement dopo qualche disastro, sia delle persone che accogliamo: la radicalizzazione non solo islamica, ma nell’attuazione di una violenza estrema potrebbe diventare una alternativa ad un vissuto di rifiuto, disagio, etichettamento e attribuzione di stereotipi.

Non si intendano queste come scusanti, ma la semplice ricerca di motivazioni per capire un fenomeno di portata enorme, solo agli inizi

L’attuale situazione in Germania, in Francia con il prete sgozzato Martedì 26 Luglio – altro forte simbolo di identità religiosa e di una crescente targetizzazione delle vittime verso specifici gruppi sociali – e in generale in Europa pone una scelta fondamentale che chi è legittimato al governo delle nazioni dovrebbe considerare: allargare le prospettive di analisi includendo categorie “scomode” che finora sono state minimizzate anche e proprio in vista di importante campagne elettorali (non dimentichiamo le elezioni a Berlino a settembre e quelle federali in Germania nel 2017) oppure continuare ad intervenire a posteriori ogni qual volta un attacco verrà sferrato.

Altro punto fondamentale degno di nota è l’attenzione che si deve rivolgere a quelle che stanno diventando forme di radicalizzazione altra rispetto alla matrice islamica o di comportamenti anti-sociali riconducibili a forti conflitti identitari.

Un’ultima questione, dal sapore più profetico, risale a tre mesi fa quando comparve su Inspire un articolo che confrontava le calamità naturali con il terrorismo (qui l’analisi): che sia giunto forse il momento di ripensare a questa comparazione, considerando che quanto successo in Germania ha ottenuto esattamente lo stesso scopo dell’impatto di un evento naturale (dove lo scopo è involontario però) ovvero di far emergere la struttura sociale di una società, con le sue vulnerabilità e fattori di esposizione di rischio, finora sottovalutati? Che sia realmente questa una diversa strategia di colpire, sgretolando i pilastri di convivenza civile e rispetto?

In sostanza possiamo decidere come nel mito della Caverna di Platone, se continuare ad essere incatenati (dalle nostre stesse reminiscenze politiche – culturali) e guardare ombre di vita quotidiana proiettate da un fuoco che separa questi uomini dalla Verità oppure liberarci dalle catene e provare, anche se con difficoltà e dolore agli occhi, a vedere dall’uscita della caverna una luce guida – un principio di resilienza – per questi aberranti fenomeni.