Il ciclone Nargis: considerazioni un anno dopo – by Barbara Lucini

E’ passato più di un anno da quel 2 maggio quando il Myanmar[1], ex Birmania, e precisamente l’area geografica dell’Irrawaddy viene percorsa e percossa dal ciclone Nargis classificato di categoria 3. Il vento è soffiato ad una velocità di 200 km/h distruggendo al suo passaggio molte città e villaggi della zona, in particolare la città di Bogalay dove sono stati rasi al suolo quasi tutti gli edifici presenti, ed allagando Yangon con l’ondata di piena che ha preso vita.

La stima delle vittime e dei dispersi si aggira intorno alle 135.000 persone ed oltre due milioni di senzatetto.

Questo evento critico permette di muovere alcune interessanti considerazioni, circa la gestione delle crisi ed i fattori in essa implicati.

Prima di tutto viene riconfermata ancora una volta l’importanza fondamentale, che ricoprono il contesto geografico, storico e culturale. Essi rappresentano tre aspetti che non possono mancare in un’analisi di un disastro e ciò, per il ciclone Nargis emerge chiaramente.

La geografia di questo Paese lo porta ad essere esposto, per collocazione e quindi per ragioni climatiche, al passaggio di cicloni ed altri eventi climatici di forte intensità; l’opinione degli esperti a questo proposito riflette l’andamento generale delle riflessioni riguardanti i cambiamenti climatici: da una parte vi sono coloro i quali affermano, che tale evento ed in particolare la sua portata è dovuto alla deforestazione delle mangrovie presenti sulle coste, così come è stato anche sostenuto dal segretario generale dell’Asean[2], l’ Associazione dei Paesi dell’Asia del sud est, Surin Pitsuwan.

Dall’altra parte si collocano coloro i quali non trovano ancora un’effettiva e verificata corrispondenza, fra l’intervento dell’uomo sulla natura e nello specifico la modificazione del paesaggio naturalistico, e lo scatenarsi di eventi catastrofici, come il ciclone in questione.

Questa condizione ambientale, si situa all’interno di un sistema istituzionale e politico di decisa rilevanza.

Prima di essere rinominato Myanmar, il Paese si chiamava Birmania e ha sempre dovuto lottare per il proprio riconoscimento ed indipendenza dagli inglesi prima, e dai giapponesi dopo.

Nel 1962 mediante un colpo di Stato sale al potere il generale Ne Win, che porta alla nascita, nel 1974 della Repubblica socialista dell’Unione di Burma, con presidente Ne Win.

Nel 1988 un nuovo colpo di Stato porta le proteste studentesche e dei monaci buddisti ad essere represse nel sangue.

Un primo vero segnale di cambiamento si ha nel 1990, quando la coalizione antigovernativa di Aung San Suu Kyi vince le elezioni; in tale occasione viene però impedito al parlamento di riunirsi. La giunta riprende il potere e sposta la capitale a Naypyidaw, consacrandola a luogo strategico e militare dal quale il generale Than Shwe continua a governare.

Nel 2007 prendono vita nuove proteste dei monaci buddisti contro il caro vita e per l’avvento di una effettiva democrazia: anche queste come le precedenti vengono sedate nel sangue.

La visione internazionale di questo Paese rimane limitata a quella di una Nazione povera, che così però non era nell’epoca della colonizzazione inglese, tanto che la Birmania era definita e conosciuta come “la risaia del mondo”, in quanto maggior esportatrice di riso.

La situazione iniziò a peggiorare con la presa del potere da parte della giunta militare, infatti nel 1987 l’ONU inserisce la Birmania tra i Paesi più poveri al mondo e poco da quel momento in avanti è stato fatto, per cambiare le sorti di una popolazione destinata a vivere in mancanza di libertà e di espressione dei propri diritti.

I vigenti e forse prolungati arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi, testimoniano che la situazione è in fase di totale stagnazione, sia da un punto vista politico interno ed internazionale, sia da quello sociale ed umanitario.

In questo ambito molte considerazione potrebbero essere condotte, nella sfera delle relazioni internazionali e delle possibilità reali di intervento da parte delle Nazioni Unite o degli altri organismi internazionali (tenendo presente la legittimità sovrana nazionale), ma fino a quando la giunta militare, che governa, non riconoscerà le proprie colpe e mancanze, si potranno attivare aiuti umanitari per soddisfare bisogni materiali, mentre poco o nulla si potrà fare per il godimento dei diritti umani di libera espressione.

La circoscrizione degli interventi esterni, la presunta autarchia del proprio governo, il respingimento o esclusione delle organizzazioni umanitarie non governative, nella gestione operativa della crisi e dell’immediato periodo successivo all’impatto, le difficoltà nelle relazioni internazionali e con le agenzie preposte al coordinamento internazionale degli aiuti mostrano, in tutte le loro concrete e drammatiche conseguenze sulla popolazione, che il discorso spesso assunto come scontato delle lead agency, ovvero dell’attribuzione e dell’organizzazione di ruoli e competenze nell’area dei soccorsi e dell’intervento in casi di emergenza, risulta peculiare in qualsiasi contesto, maggiormente in una dittatura militare come quella presente in Myanmar.

Sebbene un momento di apertura si sia poi affacciato sullo scenario politico – internazionale, non bisogna però dimenticare la questione tempi.

Per una popolazione più vulnerabile da un punto di vista sociale, economico e politico come quella del Myanmar, la questione dei tempi di intervento risulta cruciale: il dibattito fra la possibilità o meno di intervento e la legittimità di chi doveva intervenire, legittimità politica-istituzionale, che affonda le sue radici in una storia molto lontana rispetto al nostro presente, ha sottratto tempo prezioso nella gestione dell’emergenza, tempo qualitativamente determinante, come può esserlo quello dell’immediato post impatto.

Questo periodo temporale è importante per una molteplicità di aspetti, riconducibili a due aree:la prima attiene alla gestione operativa, mentre la seconda alla sfera organizzativa- sociale.

Nella prima fanno parte le attività di messa in sicurezza delle persone, l’utilizzo di mezzi e strumentazioni, che permettano di trovare qualcuno ancora vivo sotto le macerie e l’avvio dell’organizzazione più o meno strutturata dell’apparato dei soccorsi sanitari.

Nella seconda invece, si possono collocare le azioni rivolte al sistema comunicativo, al monitoraggio dell’evento calamitoso ed al suo sviluppo, alla popolazione ed alla necessità organizzativa di ricostruire un frame socio-cognitivo, che sia efficace per la gestione degli stati emotivi di ansia e paura e permetta di prendere coscienza e dare senso a quanto appena accaduto.

La forma di governo oltre ad influenzare le possibili strategie per la gestione di una crisi, influisce in un primo momento sulla concezione e percezione medesima del rischio, infatti le linee guida in merito alle possibili pratiche di prevenzione e previsione risentono in modo decisivo dell’orientamento, che di esse viene dato da parte delle istituzioni.

Cronaca di quei giorni informa, che l’allarme sia stato dato dall’India 48 ore prima del passaggio del ciclone: ragionevole tempo per la predisposizione delle necessarie e contestualizzate pratiche di prevenzione, qualora fossero state attivate, e la popolazione avesse ricevuto adeguata in-formazione in merito.

Inoltre, non dimentichiamo che il ciclone ha colpito in un momento delicato della vita politica del Paese in quanto periodo di referendum, considerato alla luce della peculiare storia politica, prima accennata.

Il Myanmar è nota infatti per essere una Nazione con un forte tasso di corruzione e la giunta militare costituisce un organismo chiuso in sé e dedito a mantenere il controllo della popolazione e delle minoranze, mettendo in atto ogni sorta di violenza fisica, psichica e morale. Un esempio proviene dall’agenzia Asianews,[3] che denuncia la giunta militare, per avere barattato aiuti umanitari con il voto “sì” al referendum, che non si è voluto rimandare se non di poche settimane, nelle zone maggiormente colpite.

L’approvazione della nuova Carta costituzionale è avvenuta con il 92% di voti favorevoli, assicurando un quarto dei seggi in Parlamento ai militari.

La giunta militare però, non si è sempre comportata con questa nota di chiusura rispetto agli altri Paesi; sembra infatti intrattenere rapporti di “collaborazione”con i Paesi aderenti all’ASEAN.

Rapporti di apertura con i Paesi occidentali si sono avuti in passato soprattutto quando gli U.S.A. hanno finanziato un programma per la salute e la lotta ad AIDS e HIV. Successivamente dato il perdurare della mancanza di rispetto dei diritti umani da parte della giunta militare nei confronti della popolazione, il programma è stato sospeso e fra Stati Uniti e Myanmar i rapporti si sono vanificati.

L’Unione europea in questo evento si è posta come spartiacque fra due posizioni prioritarie: da un parte vi è l’applicazione del meccanismo europeo di finanziamento ed aiuto in caso di calamità internazionali, e quindi un’attivazione di fondi, contributi, mezzi e materiali da inviare al paese colpito[4]; dall’altra l’invio di volontari di vari Paesi e delle organizzazioni non governative, coinvolti sia nella distribuzione di beni di prima necessità, sia nel coordinamento ed organizzazione degli aiuti sul luogo.

L’apertura agli aiuti internazionali, in particolare della Thailandia e dell’ONU, non serve a placare le polemiche circa la gestione della crisi, la mancanza di allarme e quella di strategie di prevenzione e formazione della popolazione.

In questo caso, lontano dall’essere disgiunti, gli approcci tecnocentrici e quelli socio – antropologici possono aiutare nell’analisi della percezione locale del rischio e della consapevolezza di vulnerabilità, che un Paese può acquisire.

Ponendo come base fondamentale, che la percezione locale del rischio è una pratica negoziata e raccontata fra gli abitanti di una specifica comunità, l’aumento dell’uso delle tecnologie nell’ambito della prevenzione e della previsione di potenziali eventi catastrofici, così come lo studio delle caratteristiche e delle tipologie di possibili agenti di impatto, presenti in quell’ambiente ed in quel determinato sistema sociale, possono fornire un valido supporto nella determinazione delle mappe del rischio e delle possibili strategie preventive, gestionali, organizzative.

Ciò che è più mancato in questo evento, è stata la consapevolezza che la popolazione, sulla quale ha impattato il ciclone Nargis era già fortemente provata sotto il punto di vista sanitario, economico, sociale.

Questa relazione ed influenza specifica è stata messa in risalto anche dalla pubblicazione del rapporto 2009 dell’ONU riguardante la situazione economica e sociale dell’Asia e del Pacifico presentato recentemente a Bangkok dall’Unescap,[5]

Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia e il Pacifico, nel quale si presenta l’attuale crisi sotto una triplice prospettiva: finanziaria, scelta di risorse e sviluppo sostenibile, clima.

Ciò che qui viene esplicitato è la possibile relazione esistente fra povertà ed allargamento della fascia di popolazione interessata da disoccupazione, nonché la correlazione di questi due elementi con la maggiore esposizione di questa specifica parte di popolazione alla vulnerabilità, in termini di disastri naturali.

Tale ipotesi, ancora tutta da esplorare e dimostrare, in parte non tiene in considerazione un altro aspetto importante nell’ambito della gestione delle crisi in Paesi stranieri, ed in particolare nell’area del Pacifico: la presenza di turisti in zone ad elevato rischio di calamità naturali. Questa specifica categoria di persone risulta anch’essa fortemente vulnerabile, in quanto spesso possiede limitate conoscenze operative e formative, per eventi calamitosi naturali a forte impatto[6], il flusso turistico quindi, dovrebbe essere anch’esso oggetto di una adeguata campagna in-formativa e preventiva.

Come già anticipato quindi, il ciclone Nargis ha avuto il drammatico merito di porre sotto l’attenzione di tutti coloro i quali sono interessati a queste dinamiche, il fatto che nel nuovo millennio la gestione delle crisi, naturali o man made, non è più soltanto una questione di mezzi e uomini, ma si interseca in una rete di relazioni interne di dinamiche e meccanismi della popolazione e delle istituzioni coinvolte che hanno tutte il medesimo valore. Da un altro punto di vista le tematiche globali, come il cambiamento climatico o le relazioni con le agenzie internazionali pongono il problema della legittimità nazionale di intervento dei singoli Stati.

L’analisi concernente il ruolo dei mass media sulla scena internazionale indispensabile in ogni evento calamitoso, ha mostrato di poter essere suddivisa in due tempi.

Poco dopo l’impatto e la descrizione dell’evento, della zona colpita e dei soccorsi messi in atto, l’attenzione in un secondo momento, si è spostata da un focus relativo al contesto ed alla gestione operativa dei soccorsi e degli aiuti, alle problematiche di ordine internazionale circa l’accettazione o meno di aiuti internazionali.

Le agenzie di informazione, che invece hanno mantenuto l’attenzione sulle condizioni della popolazione e sull’effettiva gestione del disastro sono state quelle a carattere umanitario o indipendente.

Successivamente la notizia ha continuato ad essere al centro del sistema informativo, per un periodo relativamente breve rispetto a quanto avvenuto per altre catastrofi.

Questo per una serie di motivazioni da ricordare: pochi giorni dopo il ciclone Nargis, il Sichuan, una regione della Cina è stata colpita da un terremoto di forte intensità, “deviando” in un certo senso l’attenzione delle agenzie comunicative verso il colosso cinese, già al centro dell’attenzione mondiale, dato che in agosto avrebbero avuto luogo i Giochi olimpici a Pechino; la difficoltà di penetrazione nelle aree colpite, che non hanno funzionato, come spesso accade, da set per riprese e servizi sensazionali; la forma di governo, come prima ricordato, orientato all’occultamento piuttosto che alla scelta del mondo visione, così come l’analisi delle iniziative promosse per l’aiuto alla popolazione colpita ha fatto emergere l’importanza della definizione di partecipazione o meno al dramma di un popolo, in un’ottica di out-group /in-group.

Ponendo un breve confronto fra quanto accaduto per lo Tsunami del 2004, ovvero l’entità degli aiuti messi in campo da più parti della società civile, il ciclone Nargis evidenzia che l’interesse di tale catastrofe si è avuto da persone già coinvolte nella agenzie territoriali presenti, come risulta dai rapporti di “United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs. Myanmar Cyclone Nargis”

Infatti le Nazioni Unite periodicamente redigono rapporti sulle attività di aiuto e coordinamento, che vengono organizzate da vari soggetti.[7]

Per la tematica affrontata fin ora si sottolinea, che alcune delle attività intraprese da organizzazioni nazionali riguardano la sfera del Disaster Risk Reduction Management ed in particolare attività di formazione e capacity building per la comunità specifica e la popolazione.

L’aspetto che emerge con più chiarezza e forza da questa breve analisi, riguarda la necessità dell’esistenza di una base democratica, grazie alla quale ogni soggetto inteso individualmente e collettivamente, istituzionale e non, possa liberamente esprimere le proprie istanze.

Indipendentemente quindi dalle considerazioni espresse prima circa gli aspetti operativi di soccorso e ripristino, sembra opportuno riflettere sulle condizioni politico – istituzionali del sistema interessato da una catastrofe.

A questo proposito è bene ricordare, che ogni evento critico, indipendentemente dalla tipologia dell’agente impattante, porta con sé elementi imprescindibili di distruzione, ma anche aspetti di novità, ai quali si dovrebbe porre attenzione, perché risultano essere opportunità di cambiamento spesso insiti nel sistema colpito.

Purtroppo la mancanza di democrazia in Myanmar è sotto gli occhi di tutta la comunità internazionale, e il dubbio insinuato da un articolo della rivista missionaria “Mondo e Missione”[8] ovvero che la popolazione di quella zona specifica non sia stata soccorsa, perché costituita da persone di etnia karen ed altre minoranze, tutte fortemente ostili all’attuale regime dittatoriale, pone ancora più interrogativi alla vicenda.

Rimane però da sottolineare per principio di coerenza e legittimità di esistenza, il lavoro di ricostruzione e ripristino che è stato attuato da più parti: monaci tibetani, associazioni umanitarie cattoliche e non, la Myanmar Red Cross Society, organizzazioni non governative e vari soggetti del mondo del volontariato locale ed internazionale.

La riflessione a questo punto si allarga, per coinvolgere e porre luce su una questione, che forse nei prossimi anni diventerà cruciale per il crisis management internazionale: la relazione sempre più diretta fra la messa in essere di best practices contestualizzate per determinati rischi territoriali, naturali o man made, e lo sviluppo sostenibile di Paesi poco sviluppati.

Inevitabilmente ciò porterà alla nascita di considerazioni circa gli aspetti culturali, istituzionali e politici, con i quali le agenzie internazionali preposte alla prevenzione, previsione e riduzione di vulnerabilità per le catastrofi, dovranno dialogare.

Nel caso specifico riportato, l’ambiguità che ha caratterizzato i rapporti con il mondo esterno, nonché con gli enti preposti al soccorso è risultata essere poco efficace e funzionale, nel raggiungimento degli obiettivi di soccorso, ricostruzione e ripristino, che dovrebbero essere insito in ogni programma di crisis management.

Questa prima analisi non può non riecheggiare le parole conclusive, quanto in un certo senso profetiche, al paragrafo riguardante il Myanmar nel libro “In Asia” di Tiziano Terzani[9]: La speranza è che un cambiamento venga da fuori. “Il mondo non può dimenticarci”, mi sono sentito dire varie volte durante questo viaggio. Il triste è che il mondo sembra avere troppo tragedie per le mani per occuparsi anche di quella, lontanissima, di 42 milioni di abitanti d’uno strano Paese ora chiamato Myanmar.

In questo caso il cambiamento si è originato da fuori, e si spera che ciò porti ad un reale e concreto cambiamento della situazione.

Inoltre, se da un lato il ciclone Nargis ha posto la questione e l’attenzione verso una nazione ed un popolazione oppressa, dall’altro lato pone la questione, ancora da esplorare, circa i movimenti solidaristici messi in atto dalle altre popolazioni in seguito a calamità avvenute in Paesi lontani dal nostro sia per distanza geografica, ma anche culturale, storica e politica.

Barbara Lucini

[1] Fonte cartina geografica: www.media.maps.com

[2] www.asean.org

[3] www.asianews.org

[4] Confrontare intervento Protezione civile italiana www.protezionecivile.it

[5] www.unescap.org

[6] Questo aspetto è risultato importante nello Tsunami del 2004, mentre nel caso del ciclone Nargis in questione assume meno rilevanza.

[7] Per maggiori approfondimenti si consiglia di prendere visione del sito: http://myanmar.humanitarianinfo.org

[8] Chiara Zappa, Myanmar, la congiura del silenzio. Nemmeno il ciclone apre i confini, Mondo e Missione, Associazione PIMEdit Onlus, Milano, agosto-settembre 2008

[9] Tiziano Terzani, In Asia, Longanesi&C, Milano, 1998. p. 291