Il ruolo negletto del crisis management in Italia – by Barbara Lucini

Questo anno pandemico appena trascorso ha mostrato agli occhi di chi si occupa di crisis management come disciplina scientifica, che questa pandemia e la sua gestione verranno ricordate come annus horribilis del crisis management.

In particolare, un’analisi compiuta delle molteplici bad practices utilizzate per la gestione della pandemia possono essere ravvisate considerando il caso italiano:

  1. la personalizzazione della scienza: la non conoscenza del virus Covid – 19 non ha frenato la spettacolarizzazione dell’interpretazione della malattia da parte di molti esperti, non considerando le ricadute che la mancata conoscenza del fenomeno avrebbero provocato;
  2. la comunicazione del rischio pianificata e organizzata in tempi di pace, quelli dove il rischio è latente, non è stata elaborata così come nessun piano comunicativo coordinato è stato utilizzato per la gestione della comunicazione dell’emergenza. Questa è invece avvenuta per opera di principi contingenti alla pressione provocata dall’impatto della diffusione dell’epidemia e per rispondere on demand ai bisogni che via via si andavano a delineare;
  3. il flusso informativo prodotto e proveniente da molteplici canali informativi non è stato gestito a livello istituzionale, secondo una lista di priorità dei bisogni cognitivi della popolazione a rischio e una tempistica ragionata;
  4. le due attività cardine del crisis management – risk assessment e horizon scanning – sono state sottovalutate e agite in tempi non opportuni. Nello specifico, la situazione italiana nelle prime fasi dell’emergenza è stata gestita in modo non olistico, come sarebbe dovuto essere, ma attenzionando esigenze (specialmente quelle economiche) particolariste;
  5. una siffatta comunicazione del rischio, non poteva non portare ad una interpretazione della situazione ufficiosa, mancante di quella necessaria visione istituzionale, unitaria, verso la quale i bisogni cognitivi e interpretativi della popolazione avrebbero dovuto rivolgersi;
  6. la leadership a tutti i livelli di governo, si è dimostrata discontinua, impreparata, non coordinata e non fondata sui principi organizzativi del crisis management. Rivalità e gelosie di partito, provincialismo e campanilismo hanno accentuato l’inadeguatezza del processo decisionale e l’efficacia delle misure adottate;
  7. accanto alla mancanza dei piani di comunicazione, non erano stati elaborati adeguati piani di gestione di una potenziale crisi sanitaria. Ciò ha prodotto discrasie nei sistemi sanitari di risposta andando ad accentuare le vulnerabilità pregresse di molte strutture sanitarie;
  8. la politica è stato l’unico attore che ha gestito la crisi provocata dalla diffusione del virus Covid – 19. In particolare, è stata una politica fortemente centrata su alcuni rappresentanti politici, i quali hanno promosso il loro ruolo politico nel contesto più generale della crisi pandemica. Questo si evince anche dalla personalizzazione della crisi politica generatasi alla fine di Gennaio 2021;
  9. la gestione di una crisi è una disciplina complessa, che richiede studio e impegno. Necessita anche però di un’etica professionale specifica che è stata disattesa[1], causando riprovazione sociale in considerazione delle categorie di persone stigmatizzate e discriminate;
  10. la resilienza utilizzata nel titolo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) può essere ad oggi considerata una parola, ma non un principio attuato nel corso della gestione di questa crisi – non emergenza, concetto abusato in ambito nazionale e che ha una durata temporale limitata, ma una crisi vera e propria – per le seguenti ragioni:
    1. le risposte che si sono attuate da parte dei vari sistemi organizzativi sono state unicamente di adattamento e non di creazione di un nuovo sistema o nuove modalità di attività. Un esempio è il sistema trasporti piegato a regole di contenimento dei contagi, che non possono essere applicate in modo proattivo alla più generale organizzazione dei trasporti pubblici;
    2. ad oggi, nonostante il tema sia conosciuto da più di trent’anni, la resilienza non è stata inclusa in modo metodologico e organizzativo nei vari piani di gestione delle crisi;
    3. la resilienza significa cambiamento proattivo, proposte di attivazione per la soluzione reale a problemi evidenziati dall’impatto dell’agente di rischio. Ciò non può però avvenire in modo avulso dal contesto circostante e una crisi politica, un’assenza di governo prolungata non sono gli scenari efficaci affinché azioni di resilienza organizzate e di lungo periodo possano avere luogo.

L’insieme di queste bad practices ha fatto precipitare la disciplina del crisis management, esistente in modo sistematizzato da più di cinquant’anni, nel suo annus horribilis dal quale sarà possibile uscire in modo resiliente solo attraverso:

  • una riformulazione dei ruoli adeguati per la gestione di una crisi, al quale faranno seguito competenze specifiche e non improvvisate;
  • un riposizionamento dei valori etici professionali al centro di un crisis management che si voglia inclusivo e proattivamente partecipativo;
  • rigettare con forza l’idea che la crisi possa diventare uno stile di vita, come descritto dalla studiosa Olga Shevchenko;
  • l’applicazione della resilienza come principio organizzativo, metodologia e strategia per un crisis management efficace e coordinato.

[1] https://www.iltempo.it/politica/2020/11/01/news/giovanni-toti-anziani-non-indispensabili-coronavirus-morti-pensionati-sforzo-produttivo-social-25081672/;

https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/15/news/macerata_bufera_su_guzzini_le_persone_sono_stanche_pazienza_se_qualcuno_muore_-278450303/