Torino: panico o comportamento corretto a risposta sbagliata? – by Davide Scotti

L’episodio di Torino è coerente con il clima di tensione cronica a cui ciascun cittadino occidentale è sottoposto ormai da diversi anni. Le numerose e continue descrizioni di eventi terroristici hanno reso un’esperienza prima alquanto rara oggi assolutamente probabile nell’immaginario collettivo e così un petardo oppure un rumore inatteso diviene ragionevolmente un attacco terroristico. Il significato degli eventi, dai suoni alle parole ai gesti, è strettamente legato alle esperienze personali e sociali e tanto più queste chiavi di interpretazione della realtà sono frequenti e recenti nella quotidianità e tanto più rapidamente vengono scelte per rispondere alla domanda del “cosa sta succedendo?”.

Subito dopo l’ondata che sposta tutti i presenti, ciascuno non agisce subito la fuga ma si guarda intorno cercando ogni indizio utile a risolvere l’incertezza aperta dall’imprevisto. Evidente tra la folla chi guarda il suo vicino, chi cerca di alzarsi sopra gli altri e chi torna a guardare la partita. Pochi ma preziosi istati che se orientati avrebbero permesso l’emergere di una risposta al “cosa sta succedendo?” più costruttiva. Già negli anni sessanta, alcuni psicologi dimostrarono il concetto di “prova sociale” secondo cui alla base di un azione o di un pensiero condiviso da molti ciascuno ritiene che ci sia un valido motivo: se tanti corrono allora è giusto correre. In questo senso, così come testimoniato dai presenti, ciascuno si comporta in accordo a quello che vede fare dagli altri, spesso i più vicini, e tante più persone agiscono quel comportamento e tanto più lo si considera valido. Nella piazza, i presenti erano anche animati da intense emozioni come entusiasmo ed eccitazione che hanno reso la comunicazione non verbale dei visi e dei corpi ancora più immediata accelerando un’azione senza pensiero. La condizione di gruppo, l’eccitazione e l’ormai presenza del terrorismo tra le possibili interpretazioni dell’imprevisto ha innescato il comportamento collettivo inadatto rispetto allo scenario reale ma probabilmente più efficace rispetto a quello immaginato.

La prevenzione e la gestione di situazioni analoghe è possibile?

I meccanismi sociali e psicologici che avviano le azioni in caso di paura sono anche quelli che possono promuovere comportamenti di riduzione del rischio e gestione della crisi. Se nel gruppo la risposta al “cosa sta succedendo?” è mediata da chi è accanto, allora ogni cittadino ha il potere di accrescere o ridurre il panico attraverso le proprie azioni. Colui o colei che non corre nello spostarsi o non grida rilancia un messaggio di calma tanto che recenti studi dimostrano che in caso di evacuazione la presenza di una persona ferma in prossimità dell’uscita riduce gli episodi di schiacciamento. La stessa “prova sociale” è un incentivo ad adeguarsi agli altri tanto nella corsa senza direzione quanto nel prestare soccorso. Tanto più un gruppo diventa numeroso tanto più diventa influente e di conseguenza una maggiore consapevolezza da parte di almeno un 20% dei presenti potrebbe indurre delle risposte al “cosa succede?” più realistiche e delle azioni più costruttive sia che si tratti di falso allarme e sia che si tratti di attentato terroristico. La migliore strategia di prevenzione è quindi quella di aiutare i cittadini a scegliere la calma della voce e dei gesti per sopravvivere e ad aiutare il vicino come azione alternativa alla pericolosa fuga. Maggiore è il numero di persone informate sulla responsabilità dei propri gesti e sui meccanismi psicosociali collettivi che intervengono nelle folle e più facilmente gli altri li considereranno competenti e quindi sceglieranno il loro comportamento come quello più in grado di risolvere l’incertezza. Lo scenario di rischio aumenta, infatti, il bisogno di leadership e la consapevolezza di poter aiutare gli altri incentiva l’assunzione di questo ruolo. Oggi la più diffusa strategia sembra essere “si salvi chi può” ma la vocazione sociale dell’essere umano può orientare facilmente al “uno per tutti e tutti per uno” se è tanto condivisa tra i presenti da diventare una nuova norma sociale di comportamento. Il contesto di rischio invoglierebbe molti a scegliere di adeguarsi piuttosto che rimane isolati agendo così un altruismo a-sociale quale Dispositivo di Protezione Collettivo. Già in altri scenari tragici, i sopravvissuti descrivono quanto la condivisione dell’esperienza con gli altri sia stata fondamentale per farli sopravvivere durante l’emergenza e successivamente per rielaborare in modo resiliente gli avvenimenti. L’altro, cioè ciascuno di noi, può rappresentare la morte, se corre e urla, oppure la vita, se attende e avvia comportamenti di collaborazione utili a salvare se stessi e il gruppo.