Turbolenze balcaniche e spinte turche in salsa jihadista – by Giovanni Giacalone

L’area balcanica continua ad essere al centro di forti tensioni etniche che rischiano di venire a loro volta strumentalizzate da strategie internazionali che vedono nella Turchia di Erdogan un possibile regista. Ma andiamo con ordine e partiamo da qualche dinamica interna ad alcuni Paesi balcanici che stanno attraversando fasi non proprio semplici.

In Kosovo il presidente Hashim Thachi spinge per la formazione di un esercito regolare kosovaro, che prenda il posto delle Kosovo Security Forces (KSA), arrivando addirittura a minacciare le dimissioni in caso contrario.

Un’ipotesi che trova non soltanto la ferma opposizione del governo serbo, ma anche della NATO e degli Usa che hanno caldamente sconsigliato mosse unilaterali del governo di Pristina, senza alcuna previa modifica costituzionale e dopo aver ottenuto il consenso di tutte le comunità della regione, serbi di Kosovo inclusi.

Attualmente la KSA ha competenze limitate mentre la sicurezza nazionale è ancora nelle mani della NATO e ciò sembra non essere più gradito all’esecutivo di Pristina.

Emergono poi ulteriori tensioni con Belgrado dopo che Marko Djuric, a capo dell’Ufficio Serbo per il Kosovo, ha denunciato il tentativo da parte di Pristina di registrare le proprietà intestate all’ex Repubblica di Jugoslavia e alla provincia autonoma di Kosovo a nome della nuova Repubblica di Kosovo.

Sale anche la tensione con la Francia in seguito all’arresto dell’ex leader dell’UCK, Ramush Haradinaj, su mandato di Belgrado che lo accusa di crimini di guerra.

Haradinaj dovrebbe essere estradato a breve in Serbia, ma i kosovari ne chiedono l’immediato rilascio. Lo scorso 4 marzo migliaia di manifestanti sono scesi per le strade di Pristina a manifestare contro il provvedimento e chiedendo la cancellazione di tutti i mandati di cattura serbi nei confronti di ex membri dell’UCK oltre all’immediata liberazione di Haradinaj.

La Macedonia nel frattempo si trova nel mezzo di una fase politica poco stabile, con il governo in carica, il nazionalista VMRO DPMNE, che si trova in aperto contrasto con il partito di opposizione socialdemocratico SDSM.

Il VMRO era uscito vincitore dalle elezioni dello scorso dicembre con 51 seggi su 120, mentre l’opposizione socialdemocratica, appoggiata da membri di partiti etno-albanesi, ne aveva conquistati 49.

I 20 seggi acquisiti grazie agli albanesi sono diventati cruciali per la formazione del nuovo esecutivo e ora Belgrado e la componente nazionalista macedone accusano Tirana e Pristina di far pressione sugli albanesi di Macedonia affinché adottino una “piattaforma comune” e spingano per una caduta del Governo, per poi procedere verso un ampliamento della coalizione tra socialdemocratici e albanesi di Macedonia che porterebbe così a un ribaltamento dell’esito elettorale di dicembre.

In Bosnia la Corte internazionale di giustizia dell’Aja (CIG) ha respinto la richiesta del governo di Sarajevo per la revisione della sentenza del 2007 nel caso Bosnia Erzegovina contro Serbia, presentata lo scorso 23 febbraio su iniziativa del membro bosgnacco della Presidenza della BiH, Bakir Izetbegovic, ma priva del sostegno degli altri due membri (serbo e croato) della presidenza della BiH.

Il partito serbo-bosniaco NDP ha annunciato che farà causa a Izetbegovic per aver presentato tale richiesta su iniziativa unilaterale, senza consultarsi con gli altri esponenti delle Istituzioni.

Intanto in questi giorni le autorità bosniache hanno posto sotto sorveglianza il predicatore islamista Imad al-Husein “Abu Hamza”; tale provvedimento, secondo fonti serbe, sarebbe a causa dell’arrivo del premier serbo Aleksandar Vucic a Sarajevo per il Summit dei Balcani occidentali. [1]

Le dinamiche interne relative ai tre Paesi citati mostrano tutte evidenti tensioni di stampo etnico che hanno radici nei vecchi conflitti sorti dopo il crollo della Repubblica Socialista di Jugoslavia nel 1991. In Kosovo tra albanesi e serbi, in Bosnia tra bosgnacchi, croati e serbi e in Macedonia tra slavofoni e albanesi etnici.

L’intrusione turca

Domenica scorsa un gruppo di circa trenta persone (molti studenti turchi affiancati da alcuni simpatizzanti bosniaci e dal rappresentante diplomatico di Ankara) è sceso in strada a Sarajevo per manifestare a favore del governo Erdogan e contro il divieto di Olanda e Germania di autorizzare manifestazioni e mobilitazioni a favore del referendum turco del prossimo 16 aprile che, in caso di esito positivo, accentrerebbe di fatto il potere nelle mani del leader islamista turco. La folla ha preso particolarmente di mira l’Olanda, accusata di aver respinto la ministra turca per le politiche sociali, Betul Sayan Kaya.

La manifestazione veniva appoggiata anche dal capo della comunità islamica del Montenegro, Rifat Fejzic e subito dopo era proprio Erdogan a farsi sentire, accusando l’Olanda di essere nazi-fascista e additando gli olandesi come responsabili del massacro di Sebrenica nel 1995. Un chiaro riferimento all’impotenza dei caschi blu di stanza nella cittadina bosniaca di fronte a tale episodio che ancora oggi è estremamente vivo nella memoria della popolazione locale.

Non è la prima volta che Erdogan si intromette nelle questioni balcaniche e cerca di gettare benzina sul fuoco, come nell’ottobre del 2013 quando, durante una visita in Kosovo, disse che i due paesi hanno radici comuni e dunque “la Turchia è Kosovo e il Kosovo è Turchia”. Un’affermazione che non venne presa affatto bene da Belgrado e dal mondo slavofono dei Balcani.

L’input jihadista

I vecchi rancori etnici dei Balcani sono stati “solleticati” anche dai jihadisti dell’Isis che in più occasioni sono usciti con dei filmati che inneggiavano al jihad nell’area, come “Honor is Jihad: a message to the people of the Balkans”, diffuso nel maggio 2015 e “Mi smo Islamski Halifet” (noi siamo il Califfato islamico), nel luglio 2015.

In entrambi i filmati si incitava a compiere attacchi terroristici in Bosnia, Kosovo, Serbia, Albania e Macedonia e a rovesciare i governi dei “miscredenti” per sostituirli con la Sharia. Il primo video in particolare faceva ampio uso di immagini cruente riprese dalla guerra di Bosnia: moschee distrutte, minareti crollati, corpi senza vita in prossimità di mezzi dell’ONU, quasi a volerne indicare la non-curanza nei confronti dei musulmani (tema ripreso anche da Erdogan ieri, nell’accusa ai caschi blu olandesi a Sebrenica). L’intento era chiaro, scuotere la psiche dei musulmani dell’area.

La Turchia

La mossa di Erdogan è chiaramente propagandistico-strategica e se può starci una premessa che illustra come da sempre l’area balcanica viene considerata parte integrante dell’Impero Ottomano da chi ne invoca il ritorno, è altrettanto evidente che il rais turco ha bisogno di mostrarsi come “uomo forte” sia in patria che sul piano internazionale. E’ una necessità visto che Ankara è uscita con le ossa rotte dal conflitto siriano.

Il governo Erdogan aveva infatti appoggiato apertamente la rivolta anti-Assad in tutte le sue “salse” jihadiste, dalle milizie della Fratellanza Musulmana ai qaedisti e persino all’Isis, come è ormai stato ampiamente dimostrato e documentato.

Bashar al-Assad era il nemico numero uno di Erdogan e per un po’ si era persino pensato a una possibile vittoria dell’ala sunnita che stava cercando di spezzare l’asse sciita che da Teheran correva fino a Beirut passando per Baghdad e Damasco.

Erdogan era stato additato in più occasioni come amico dei jihadisti da diversi media Occidentali, da Mosca, dall’Iran e dai curdi. Nel frattempo erano in molti a chiedersi come fosse possibile che l’aeroporto di Istanbul e la zona in prossimità del confine con la Siria fossero diventati dei luoghi di transito per foreign fighters provenienti da tutto il mondo senza che le autorità di Ankara si accorgessero di nulla. Le inchieste giornalistiche sui traffici di armi, i campi di addestramento e i leader dell’Isis curati negli ospedali turchi hanno fatto il resto.

Con l’intervento militare russo e il tentativo di golpe dell’estate 2016 ad Ankara le cose sono cambiate ed Erdogan, per sopravvivenza, è stato costretto a schierarsi con Putin nella lotta contro il terrorismo dell’Isis.

La strategia del Cremlino puntava apertamente a salvaguardare Assad; Erdogan era ben consapevole del fatto che il leader alawita non sarebbe caduto e che l’Occidente stava abbandonando Ankara, non soltanto per la sua ambigua linea nei confronti del jihad in Siria ma anche per la progressiva deriva autoritaria che stava mettendo in serio imbarazzo l’Europa e la NATO, dato che la Turchia è paese membro della NATO ed anche di un certo rilievo sul piano militare.

Altro aspetto intollerabile per il rais è il ruolo di primo piano svolto dalle milizie curde, tra i veri vincitori del conflitto siriano, sicuramente sul piano militare (su quello politico bisognerà attendere). Erdogan non ha mai digerito il supporto militare fornito ai curdi dall’Occidente.

A questo punto cosa può fare il leader turco, oltre a cercare di accentrare il più possibile i poteri nelle sue mani? Mostrare i muscoli e al momento può farlo soltanto nei Balcani dove forse spera di destabilizzare l’area, contesa tra Russia e NATO, facendo leva sulla vecchia propaganda etno-religiosa che è già stata deleteria negli anni’90 nell’area e dunque colpire indirettamente Europa e NATO.

I rischi

Quali sono dunque gli elementi che di fatto incrementano i rischi di una eventuale strategia di destabilizzazione dell’area balcanica occidentale?

  • L’alto tasso di disoccupazione, soprattutto in Kosovo, potrebbe essere un tassello estremamente importante per chi ha intenzione di arruolare potenziali jihadisti facendo leva sul piano economico, come già emerso pochi giorni fa.
  • L’instabilità politica in Paesi come Kosovo e Macedonia facilitano la penetrazione di gruppi radicali che possono andare a rafforzare le reti islamiste e jihadiste locali.
  • Le tensioni etniche possono diventare strumento di radicalizzazione religiosa là dove l’ideologia nazionalista è ormai vista come fallimentare (Kosovo in primis ma anche in Bosnia, dove l’ideologia nazionalista non ha mai fatto breccia). I governi locali vengono percepiti come corrotti da molti giovani che vedono nell’Islamismo la nuova dottrina di salvezza da abbracciare.
  • La permeabilità dei confini di quei Paesi della rotta balcanica che rischia di far penetrare nell’area non soltanto jihadisti balcanici di ritorno ma anche eventuali terroristi mediorientali. Una minaccia diretta anche per l’Europa.
  • La presenza all’interno della galassia jihadista dell’Isis di interi gruppi di combattenti balcanici, guidati da Lavdrim Muhaxheri, pronti a rientrare in patria e con appoggi in territorio turco.
  • L’ambiguo flusso di denaro proveniente da Paesi del Golfo che finiscono per alimentare le reti salafite nei Balcani.

Tutto questo alle porte dell’Italia.

[1] http://saff.ba/abu-hamza-u-kucnom-pritvoru-zbog-dolaska-aleksandra-vucica-i-samita-premijera-zapadnog-balkana-u-sarajevu/