La discussione in corso dopo gli attentati in Nuova Zelanda, a Utrecht e sul bus milanese è estremamente interessante. Ci entro a “gamba tesa” soprattutto per criticare la maggior parte delle argomentazioni che ho letto in questi giorni, perché quest’ultima settimana è un ulteriore punto di rottura per la comprensione del terrorismo e, di conseguenza, delle necessarie strategie per combatterlo.
La questione per me è semplice e qui la riprendo per punti, rispetto ad approfondimenti che farò in quei contesti più adatti alla riflessione teorica.
Al centro c’è la definizione di terrorismo sulla quale tutti si cimentano per cercare di capire se gli eventi da cui partiamo siano tali oppure no. La definizione è importante perché, al di là di orientare gli strumenti giuridici, fornisce i confini interpretativi del fenomeno e, di conseguenza, le linee di azione con cui rispondere.
Bene: il limite del dibattito è che tutti coloro i quali lo affrontano sono estremamente vecchi e formali nel cercare di confermare i modelli esistenti, così generando enorme vulnerabilità rispetto alla capacità evolutiva che il terrorismo ha, scombussolando gli schemi interpretativi di chi lo combatte. Inutile cercare a tutti i costi di ricollocare il terrorismo di oggi nelle definizioni europee, in quelle nazionali, nelle altre più diffuse di ICT o proposte dagli studi di Alex Schimd: chi lo fa sta cercando di inscatolare in quello che già conosce qualche cosa che evolve ormai in maniera diversa.
In particolare, il richiamarsi alla necessaria dimensione organizzativa formale e alla matrice politica o ideologica per definire il terrorismo è una sciocchezza pericolosa.
Le nuove strutture organizzative, cioè quei sistemi di relazioni significative che servono a costruire identità e dare senso interpretativo alla realtà, sono diventati flessibili e adattabili: alla appartenenza di gruppo si è sostituita l’appartenenza di rete, fondata sulle relazioni tra singolarità che si imitano, si confermano e si emulano. Tarrant nelle sue rivendicazioni non si richiama a gruppi ma a singoli individui. L’idea di Lupo Solitario, al di là di offendere i lupi, è una stupidità da esorcismo che non riconosce il fatto che la solitudine organizzativa non corrisponde a una solitudine esistenziale: non si appartiene più a gruppo, che legittima idee e magari pianifica attachi, ma si partecipa una rete che si auto-seleziona per la capacità di soddisfazione che offre a bisogni individuali che possono mutare anche rapidamente. Questa è la nuova forma di appartenenza, diversa dalle precedenti, ma fondativa al punto di non poter parlare di solitudine. Ma drammatica al punto da rendere, in un contesto organizzativo liquido, ogni prevenzione pressoché impossibile.
Allo stesso modo ragionare per matrice politica o per ideologia è roba stravecchia. Le ideologie, così come l’orientamento politico, erano uno strumento “socialmente utile” di compensazione della espressione delle proprie credenze: condividere una ideologia determinava anche un’etica e una legittimazione di certi comportamenti, non di altri. Oggi le ideologie, assenti, hanno lasciato la primazia ai problemi che si affacciano con la loro urgenza pratica senza alcuna mediazione ideale, con il risultato che la comunanza delle questioni esplode nella diversità con la quale ciascuno manifesta la propria strada per risolverle. Tarrant e Greta usano il medesimo linguaggio e affrontano le medesime questioni, per fortuna con percorsi diversi. Ma rappresentano, nella drammatica trasversalità delle narrative, la sostituzione di un sistema segmentato di ideologie con un brodo ideologico globalista che non fornisce alcuna mediazione rispetto ai comportamenti.
Per chi si occupa di terrorismo oggi la questione, pertanto, non è quella di cercare di inscatolare i diversi eventi in definizioni esistenti – di cui nessuna generalmente condivisa – ma andare alla ricerca dei modelli interpretativi più adeguati per comprendere un fenomeno diverso dal terrorismo che finora ci ha interessato.
La mia posizione, espressa da alcuni anni, la sapete: un fenomeno è terrorismo per le conseguenze che produce e non per le motivazioni che lo generano. Capisco che sia un approccio “operativo” e legato al presente, quindi evolutivo, ma dal mio punto di vista è meno vulnerabile che non le vecchie definizioni a cui tanti interpreti rimandano. In questa prospettiva non significa affermare che tutto è allora terrorismo (qualche superficiale lettura così ha inteso) ma sostenere che la dimensione con cui leggo l’attributo di terrorismo non sta nelle sue ragioni, ma nelle sue manifestazioni. Così anche il sequestro del bus milanese è un atto di terrorismo perché ha un impatto rilevante sulla quotidianità della nostra comunità, sulla sua percezione della sicurezza, sulle politiche di security che andremo a implementare e, financo, sulle relazioni politiche: quel bus bruciato sta cambiano le nostre comunità non per loro scelta ma come conseguenza a un evento imposto. Si tratta di una nuova forma di terrorismo che non ha a che fare con Daesh (c’è ancora chi cerca Daesh nell’autore di un attacco per decidere se esso sia di terrorismo oppure no!) se non perché si può configurare come la sua drammatica perdurante eredità operativa, non ideologica.
Il più grande rischio che stiamo correndo in questi giorni, dopo questa serie di eventi, è di volerci tranquillizzare confermando le nostre credenze cristallizzate in definizioni e sistemi normativi, invece di andare alla ricerca di nuovi modelli interpretativi che sappiano rendere conto di una realtà che cambia indipendentemente dal nostro modo conformista di vedere il mondo.
Cambiare mind set amici! Se no: adios!