Attacco a Liegi: il terrorismo quotidiano che ci perseguita – by Marco Lombardi & Marco Maiolino

Intorno alle 10:30 di questa mattina, in un’area centrale di Liegi, importante città belga vicina al confine tedesco, un uomo, vestito di nero, che sembra aver lanciato l’ormai ricorrente grido “Allah Akbar”, ha pugnalato alle spalle due poliziotte e si è impossessato delle loro pistole di ordinanza per finirle. Ha poi sparato, uccidendolo, a un malcapitato passante di 22 anni, per asserragliarsi infine all’interno di una scuola dove, dopo aver preso in ostaggio un’impiegata, è stato abbattuto dalle forze di sicurezza accorse sul luogo dell’attacco.

Le autorità tratterebbero l’incidente come un atto di terrorismo, fenomeno che nella sua declinazione jihadista ha già purtroppo e ripetutamente colpito il Belgio durante gli ultimi 3 anni.

A colpire, questa volta, in una calda e soleggiata mattinata primaverile, sarebbe stato un 36enne, detenuto in una prigione locale per piccoli crimini e in congedo dalla reclusione per un giorno. A quanto si evince dai resoconti, il soggetto sarebbe stato radicalizzato in carcere: non una novità insomma.

Se il “movente jihadista” venisse confermato si tratterebbe di una classica esperienza da from zero to hero, da scapestrato qualunque a divino giudice, in grado di decidere della vita altrui. In ogni caso, questa mattinata di eretica divinità, se analizzata, appare svelare degli elementi particolarmente interessanti.

Quella del galeotto 36enne sembra essere stata un’azione individuale che ha colpito la quotidianità occidentale con gli strumenti della sua stessa quotidianità. Un modus operandi che gli addetti ai lavori definirebbero come tipico della lone jihad, una metodologia innovativa figlia di un terrorismo che il Daesh è stato in grado di rivoluzionare, trasformandolo in uno strumento “fai da te”, capace di attrarre, tradurre e sfogare una svariata e disparata serie di risentimenti, disagi, frustrazioni e patologie. Una sorta di rimedio universale ai mali del mondo globale. Ma soprattutto, l’esperienza del sedicente Califfato sembra aver democratizzato lo strumento del terrorismo, “customizzandolo” e rendendolo a portata di chiunque, anche del carcerato di Liegi, come di molti altri prima di lui.

Ancora, come già nella prigione di Depok in Indonesia dove lo scorso 8 maggio una rivolta di alcuni prigionieri nata per futili motivi si è trasformata in un attentato rivendicato dal Daesh, la possibilità che il 36enne responsabile dell’attacco belga sia entrato in prigione come un semplice “criminalotto” e ne sia uscito terrorista sottolinea ancora una volta la pericolosità delle carceri come luoghi della radicalizzazione, dove un bacino di svariate “storie difficili” rischia di poter essere accomunato ed attratto dal magnete sbagliato.

Dunque, il sedicente Califfato appare aver innescato un cambiamento morfogenetico del fenomeno terroristico e la sua manifestazione belga di questa mattina non può essere fraintesa come il mero “colpo di coda” di una bestia ormai morente.

E qui si apre una riflessione sul futuro e sull’impegno che la lotta al contrasto del terrorismo richiede, quotidianamente. Perché siamo di fronte a un terrorismo quotidiano, per l’impatto che ha nella nostra vita di tutti giorni, per la “qualunquità” dei soggetti che attaccano, per la normalità degli strumenti e del modus operandi. Ma per la costante eccezionalità dei suoi effetti, intesi non solo nei loro esiti violenti ma anche per i loro esiti comunicativi, percettivi…. terrorizzanti, esso conferma l’obiettivo ultimo del terrorismo: farci paura.

Ma per fortuna che Daesh è morto.

Perché altrimenti cosa sarebbe stato:

  • il 23 marzo tale Redouane Lakdim, marocchino di 26 anni, ha sequestrato i clienti del supermercato Super U di Trèbes eha assassinato tre persone oltre a ferirne sedici. Le dichiarazioni del ministro dell’interno «L’abbiamo seguito e pensavamo che non ci fosse radicalizzazione. È passato all’azione all’improvviso», insomma un individuo che per lungo tempo è stato considerato solo come un «piccolo pusher».
  • l’8 aprile la polizia tedesca comunica di avere sventato un attacco alla maratona di Berlino: erano in sei, volevano colpire con coltelli i partecipanti alla corsa.
  • il 5 maggio all’Aja, in Olanda, al solito grido di “Allah Akbar” un tizio ventunenne ferisce a coltellate tre persone prima di essere arrestato. E’ uno “pischico” noto per comportamenti squilibrati.
  • il 12 maggio un ventenne armato di un coltello ha attaccato diverse persone in una zona molto frequentata di Parigi vicino alla metropolitana Quatre-Septembre: è stato poi identificato dalla polizia come Khamzat Azimov, cittadino francese nato in Cecenia, ha ucciso una persona e ne ha ferite altre quattro, prima di essere ucciso a sua volta.

Ed è proprio vero che Daesh è morto: l’organizzazione terroristica che conoscevamo non è più presente nella forma nata il 29 giugno 2014. Ma ci lascia una eredità che squassa la nostra quotidianità, pure in assenza di una organizzazione strutturata che possa massimizzarne gli effetti in un contesto strategico meglio pianificato.

Se così fosse, non avremmo ancora toccato il peggio.

Per ora siamo nella situazione di buffer, in cui la viralità imitativa sapientemente diffusa da Daesh mantiene gli effetti del terrorismo con il modus operandi promosso. Si tratta di una fase che permette la morfogenesi della organizzazione e che, nella quotidianità in cui si esprime con i risultati e come preparazione tattica, è funzionale al riassetto della catena di comando e controllo e del terrore.

Rispetto a questa modalità strategica senza strategia siamo di nuovo in ritardo per definire una risposta adeguata che sappia rendere più sicuri i nostri passi.

La nostra intelligence diffusa, dalle agenzie ai reparti speciali, svolge il suo ottimo lavoro in contesti organizzativi che utilizzano una forma strutturata del flusso informativo. Al contrario, nel terrorismo quotidiano “informale” la risposta efficace si ritrova nell’”abbassamento” della competenze ai reparti che operano ora per ora sul territorio, dalla polizie locali agli agenti di quartiere, che sempre più avranno da assumere competenze specifiche per interpretare i rapidi fenomeni di cambiamento che interessano il territorio e le capacità operative per rispondere ad attacchi terroristici, nella forma e non nelle motivazioni, che richiedono un intervento  adatto a ridurne i danni.

Da sempre il terrorismo minaccia la quotidianità.

La risposta alla minaccia si ritrova nella quotidianità.