Come al solito, allo scoccare di un appuntamento importante religioso e civile, il terrorismo colpisce duramente in Iraq. Ieri, primo marzo, ha sterminato una gran numero di sciiti a Baghdad, a Kerbala e in Pakistan.
Non ho mai amato citarmi, ma desidero ricordare che – al contrario di molti – dal mio ritorno dall’Iraq lo scorso settembre, ho sempre sostenuto – anche da queste pagine di Cattolica News – come nel Paese non esistesse guerriglia pro – Saddam ma terrorismo. Un terrorismo che persegue con determinazione un progetto di sistematica instabilità, all’interno di un progetto jihadista ormai avviato, per cui sia la cattura del Rais sia quella di Osama poca influenza hanno sulle cose ormai in corso d’opera, i cui colpi scandiscono con precisione ogni singolo momento di potenziale svolta del Paese. Quest’ultimo risultato è evidente: l’attesa sottoscrizione della Costituzione è stata rinviata. Il bersaglio sono stati gli Sciiti, colpevoli di essere una maggioranza religiosa che ha accettato un compromesso sulla non esclusività dell’Islam nella elaborazione delle leggi del futuro stato iraqeno. L’arma strategica è stata l’indistinguibile “armata” di Ansar al Islam e Al Qaeda, il cui controllo militare è da molto più tempo di quanto si pensi, nelle mani di Al Zarqawi. Costui è ormai il leader delle formazioni, un esperto di armi chimiche e biologiche, un assassino consumato, un formatore nei campi afghani e ceceni delle nuove leve, un reclutatore di livello internazionale gestore di una rete transnazionale del terrore che ha avuto cura di costruire in questi ultimi anni. Come i terroristi di Ansar che ho incontrato in Nord Iraq: una persona che dobbiamo vedere prima che lui ci veda… Questa volta, inoltre, l’azione si è allargata andando a colpire gli sciiti anche in Pakistan, rafforzando il segnale di instabilità verso questo gruppo religioso, rinforzando la dimensione internazionale dell’attacco, sottolineando la criticità del Pakistan. Da quest’ultimo Paese, infatti, aumentano i segnali che mostrano una criticità delle aree afghano-pakistane, ormai santuario del terrorismo, e la preoccupazione di una progressiva connessione tra queste aree di confine con quelle poste a oriente, dove c’è terreno fertile per il terrorismo tra i combattenti del Jamnu Kashmir. Che cosa possiamo aspettarci? Che le cose peggiorino dal punto di vista militare: circa sei mesi fa dissi di aspettarmi diciotto/ventiquattro mesi di peggioramento, e lo confermo. Che cosa possiamo fare? Andare avanti, insieme agli sciiti, ai kurdi e alle altre minoranze iraqene. Ai primi è chiesto di mostrare che il coraggio dell’Islam, come più spesso fu nella storia, si dimostra non solo nella sua deteriore espressione del terrore di Osama, ma soprattutto nella capacità di tenere testa ai loro stesasi assassini, senza connivenze motivate da domande irrisolte di protezione agli americani o da spuri afflati religiosi. Se gli sciiti sono non solo una maggioranza numerica, ma anche rappresentano una espressione di valore per il futuro Iraq devono cominciare a mostrarlo adesso, compartecipando responsabilmente a un processo di stabilizzazione e democratizzazione del Paese che non può essere invertito. Ai secondi, ai Kurdi, che in questi giorni dimostrano per le strade a supporto di un referendum per l’autodeterminazione, è chiesto di ascoltare le parole che il loro Primo Ministro Barham Salih già mi disse – e non perde occasione di ripetere -: “il popolo Kurdo, come ogni altro popolo, ha il diritto della propria autodeterminazione compreso il diritto di erigere uno Stato Kurdo. Questo è un diritto fondamentale, ma io sono in una posizione di responsabilità e spero di esercitare responsabilmente i miei compiti. I credo che i kurdi irakeni abbiano una opportunità di collaborare con gli iraqeni democratici, gli arabi democratici, i turcmeni democratici, gli assiri democratici, per sviluppare un sistema di governo valido per tutti e fondato sulla libertà. Per questo richiedo uno stato federale democratico per l’Iraq.” Il loro futuro è, infatti, in questo Iraq Federale e il loro anche comprensibile scontento per l’andamento delle cose non deve incrinare l’unità del popolo, che affonda le radici in una forte comune identità, onde evitare estremismi di pochi già caduti nella rete di Ansar al Islam. Agli Alleati, tocca tener duro. La giustificazione a posteriori dell’intervento in Iraq sta nella perseveranza politica e militare contro il terrorismo, indipendentemente da scadenze elettorali e pressioni delle lobby economiche, e nel supporto tale al processo di cambiamento in Iraq che è stato innescato.
Marco Lombardi