Attacco jihadista (a Charlie Hebdo): terrorismo di successo o fallimentare? Elementi di analisi – by Claudio Bertolotti

Parigi, 8-9 gennaio 2014: 20 morti (17 vittime e tre terroristi jihadisti). Dopo Canada, Stati Uniti e Australia, i due episodi in Francia, collegati o meno tra di loro, forniscono alcuni utili elementi di valutazione sul “terrorismo jihadista” contemporaneo.

A supporto di una successiva e approfondita analisi, si vogliono qui elencare sinteticamente gli elementi di forza caratterizzanti tale fenomeno (in fase di espansione e radicalizzazione), le vulnerabilità, gli elementi di minaccia, le opportunità e, infine, i “trade-off” – le variabili in grado di influire sugli sviluppo socio-politici e sulle procedura di sicurezza in atto e in fase di implementazione.

In primo luogo,  i punti di forza del terrorismo jihadista si concretizzano nelle adeguate capacità informativa, organizzativa e di movimento a cui si uniscono la forte motivazione e l’elevato livello operativo acquisito da quei foreign fighter “europei” che hanno fatto rientro dai teatri di guerra iracheno, siriano e libico. Tali soggetti sono in grado di sfruttare a proprio vantaggio la pressoché infinita disponibilità di obiettivi di tipo “soft target” da colpire e caratterizzati da un elevato livello di vulnerabilità; un vantaggio che si accompagna alla possibilità di reperimento di armi da guerra provenienti dal mercato nero (nulla a che vedere con le armi comuni regolarmente denunciate e detenute) e di equipaggiamenti reperibili dal libero commercio. Azioni di questa tipologia sono in grado di indurre all’emulazione altri soggetti, indipendenti e non organizzati: i lone wolf  (o terroristi autoctoni).

Agli elementi forti fanno eco alcuni fattori di debolezza del terrorismo jihadista. In primis, sul piano operativo, la marginale capacità di colpire con efficacia la maggior parte degli hard-target (obiettivi militari, infrastrutture strategiche, critiche e sensibili); sul piano informativo vi è invece una concreta vulnerabilità all’identificazione attraverso i social-network. Infine, su un piano più generale, permangono gli attriti latenti all’interno delle eterogenee dimensioni jihadiste, mentre si sviluppano le conflittualità tra i differenti brand del jihad, in particolare Al-Qa’ida vs l’ISIS[1] (quello a cui stiamo assistendo è uno sforzo parallelo condotto da due organizzazioni in competizione tra di loro: la prima in fase di declino, ma con una struttura organizzativa consolidata, l’altra in piena fase espansiva, ma con una limitata esperienza operativa al di fuori del campo di battaglia convenzionale: una competizione che potrebbe portare a un’intensificazione delle azioni violente).

Ai fattori di debolezza del terrorismo jihadista, si contrappongono le vulnerabilità degli stati occidentali. I più recenti eventi, tendono a dimostrare come le forze di sicurezza e di intelligence non siano in grado di contrastare le manifestazioni di un fenomeno sempre più audace (e il verificarsi di un singolo episodio si impone su quelli prevenuti con efficacia); nel complesso vi è una sostanziale incapacità previsionale da cui derivano limiti oggettivi di azione preventiva – accentuati dai tagli alle spese della componente difesa-sicurezza – nei confronti dei potenziali obiettivi la cui salvaguardia richiede(rebbe) elevati costi in termini di risorse umane, economiche e materiali per garantirne la sicurezza fisica. Inoltre, pesa l’assenza di un adeguato quadro giuridico finalizzato a un efficace contrasto al “terrorismo fondamentalista di matrice jihadista” (che differisce  dallo storico “terrorismo politico” di stampo europeo in ragioni, dinamiche, sviluppi e organizzazione).

Pesa, nel complesso, l’assenza di una classe dirigente competente in grado di definire una linea strategica per la sicurezza e che sia, al contempo, in grado di far fronte al crescente disagio sociale – in parte conseguenza di un alto tasso di disoccupazione – e alla pressione dell’opera di reclutamento e propaganda jihadista – sia globale via web, sia a livello locale. A ciò si aggiungono la diffusione del “terrore”, il condizionamento dell’opinione pubblica, l’esaltazione di sentimenti nazionalistici e la deriva estremista (su entrambi i fronti) e populista i cui effetti inducono a scelte politiche restrittive, tra le quale anche la limitazione di diritti individuali (privacy e sicurezza) e la sospensione di accordi internazionali (nel merito si cita la decisione del governo francese di limitare il libero movimento dei cittadini europei attraverso le proprie frontiere, in deroga al trattato di Shengen).

Significative le opportunità potenziali, su entrambi i fronti.

Le opportunità del terrorismo jihadista sono conseguenza del contesto in cui si è orientato a operare e della riorganizzazione strutturale.

Il contesto operativo è il “domestic urban warfare” (ambito urbano ad alta densità di popolazione) in grado, da un lato, di garantire la presenza di safe-areas di supporto e, dall’altro, di opporre una limitata capacità di reazione da parte di forze di polizia urbana dal basso profilo operativo.

Si è così imposta una nuova forma ibrida della guerra che ha indotto a una razionale riorganizzazione strutturale del terrorismo jihadista, su base “molecolare[2]”, rafforzata dall’attivazione di cellule/nuclei/individui dormienti (c.d. “zombie”)[3] già presenti in Europa o in aree di prossimità (come la Turchia che è al tempo stesso area di transito della “transumanza jihadista”).

Le  opportunità che possono essere colte dagli stati occidentali sono rappresentate, in primo luogo, da una collaborazione attiva delle agenzie intelligence funzionale alla possibile riorganizzazione di un modello di difesa-sicurezza di tipo “diffuso e condiviso”; a ciò si unisce l’opportunità di un  maggiore coinvolgimento delle comunità musulmane. In secondo luogo, v’è da porre in evidenza l’opportunità rappresentata da un razionale, quanto efficace, impegno dell’Occidente nella lotta ad ampio spettro all’ISIS e in un coerente ed equilibrato controllo delle frontiere lungo l’arco mediterraneo.

A fronte delle opportunità, vi sono le minacce. La prima è rappresentata dall’emergere di una condizione di tensione sociale derivante da azioni terroristiche reali o, più semplicemente, potenziali, a cui si contrappongono i limiti di capacità di reazione e contrasto dei governi europei. Limiti che saranno messi a dura prova dal probabile fenomeno di emulazione che seguirà e dalla replicabilità di azioni dimostrative anche violente (ad esempio, l’incendio alla rivista tedesca “Hamburger Morgenpost” l’11 gennaio, che nei giorni scorsi ha pubblicato alcune vignette di Charlie Hebdo, e, lo stesso giorno, l’allarme bomba a Bruxelles alla sede del più importante quotidiano belga, “Le Soir”). Un livello di minaccia accentuato dalla natura inequivocabile del ruolo di “one-shot fighter” del “terrorista”, determinato dalla consapevolezza di andare incontro a morte altamente probabile o certa.

Infine, le scelte alternative (trade-off). Sul piano della sicurezza, non sono da escludere i potenziali effetti dinamizzanti derivanti dal processo di amplificazione mass-mediatica, a cui concorrono sia le striscianti quanto fantasiose teorie “complottistiche”, sia la diffusione virale di quei video-web postumi dei terroristi[4] che possono alimentare le dinamiche di competizione dei gruppi di jihadisti ed esaltare improvvisati lone wolf. Significativa è la strategia finalizzata all’attenzione massmediatica che ha per scopi l’amplificazione del messaggio e la capacità attrattiva dei potenziali militanti (in particolare Al-Qa’ida e ISIS, che in tale contesto muovono verso un’accelerata recrudescenza di azioni mediaticamente sempre più appaganti; con ciò indicando un’escalation nell’intensità delle future azioni su suolo europeo e, dunque, anche italiano).

Fatte queste necessarie valutazioni iniziali, concludiamo con l’elenco (certamente parziale) degli effetti derivanti da una singola azione portata a compimento da due soli soggetti (a cui si aggiunge una seconda azione condotta da un singolo terrorista).

Sul piano tattico e operativo:

  • eliminazione degli obiettivi (dal forte valore simbolico);
  • capacità di tenere impegnate 88.000 unità della sicurezza nazionale (Forze Armate e di polizia), distraendole dai normali compiti di routine;
  • blocco della capitale di una delle più importanti nazioni a livello mondiale;
  • dimostrazione dei limiti dello strumento intelligence e di sicurezza.

Sul piano strategico e politico:

  • diffusione e amplificazione massmediatica del messaggio jihadista;
  • dimostrazione dell’imprevedibilità della minaccia;
  • generale consapevolezza di vulnerabilità (forte impatto psicologico);
  • terrore diffuso immediato e paura collettiva persistente;
  • scelta da parte degli attentatori del “martirio autonomamente scelto (istisshadi) e imposizione del ruolo di “martire” (shahid) di fronte alla propria comunità;
  • induzione alla polarizzazione “identitaria”;
  • fomento degli impulsi populisti e radicali;
  • mobilitazione della Comunità internazionale;
  • avvio del processo di revisione dei protocolli di sicurezza;
  • sospensione degli accordi di Shengen e possibile restrizione delle libertà individuali (privacy, mobilità).

In estrema sintesi, si tratta innegabilmente di un successo sui piani mediatico, politico, psicologico e su quello della sicurezza; un successo facilmente replicabile – anche in Italia – indipendentemente dagli effetti diretti su quel “campo di battaglia” del quale siamo parte, in veste di attori protagonisti o di semplici comparse.

 

 

[1] Le due azioni perpetrate a Parigi sono state attribuite una ad Al-Qa’ida e l’altra all’ISIS.

[2] Definizione introdotta da M. Minniti, sottosegretario con delega ai servizi, intervista a Il Corriere della Sera dell’8 gennaio 2014.

[3] Si rimanda al contributo di M. Lombardi, Dopo Charlie Hebdo solo Zombie: il nuovo terrorismo ibrido, in www.itstime.it.

[4] Video diffuso via web il giorno dopo l’uccisione di Amedy Coulibaly, responsabile dell’uccisione di una poliziotta e dell’assalto a un negozio ebraico.