Critica allo studio della radicalizzazione violenta – by Marco Lombardi

In questi ultimi anni la ricerca sul terrorismo si è concentrata sul tema della radicalizzazione, per cercare di intercettare i segni che caratterizzano il processo che porta a un esito violento, per esempio di adesione a un gruppo terroristico, nella prospettiva di prevenire e ridurre il fenomeno.

Di massima i risultati sono deludenti: i successi non sono mancati, anche in termini di intercettazione di una rete che stava convergendo su una azione violenta, ma sono stati episodici e casuali.

A oggi non esiste un approccio consolidato di intercettazione della radicalizzazione violenta che si possa proporre come una strategia di prevenzione del terrorismo.

Ripercorrendo questi anni, ci siamo mano a mano concentrati su particolari ambienti, giudicati favorevoli alla radicalizzazione quali i luoghi di culto, l’internet, le prigioni: ogni volta uno di questi ambienti sembrava essere centrale per la radicalizzazione per poi essere ricompreso come “uno” degli ambienti concorrenti.

Oggi, si parla di esito violento della radicalizzazione quale conclusione di un percorso soggettivo, variegato, sganciato da motivazioni singolari e forti, spesso auto-organizzato, dunque sempre meno prevedibile e descrivibile per mezzo di fattori qualificanti comuni rispetto a questa molteplicità di percorsi. In questa prospettiva si è cominciato a parlare di “segnali deboli”: si tratta di fattori che non hanno significato, in merito alla radicalizzazione, se considerati singolarmente ma che lo acquistano quando, tra di loro associati, assumono una particolare configurazione significativa per indicare il grado di radicalizzazione. Per esempio, possiamo considerare in tal modo i circa 400 fattori che costituiscono la dozzina di Terrorism Risk Assesment Instruments (TRA-I), oggetto di studio del progetto europeo Counter in corso, quando vengono rilevati secondo una frequenza e una disposizione tipica per i diversi TRA-I.

Questa linea di lavoro è estremamente utile e interessante per comprendere e spiegare il processo di radicalizzazione ma inutile, così come è, per prevenirlo.

Per loro natura, i cosiddetti “segnali deboli” sono propri, se non della totalità, della maggioranza dei cittadini descrivendo i caratteri quotidiani della vita: essi non diventano segnali di allarme, ma sono segnali di allarme solo quando assumono determinate configurazioni (pattern) considerate “a rischio”, configurazioni che sono una quota ridotta di altre configurazioni che appartengono alla normalità dei comportamenti. Ciò significa che prevenire utilizzando un sistema complesso di segnali deboli, implica il monitoraggio costante della “quasi intera” popolazione: condizione inaccettabile sul piano etico e non praticabile per la quantità di risorse necessarie. A ciò si aggiunge il fatto che una buona parte di questi segnali deboli riguarda informazioni personali e tendenze valutabili sul medio periodo e le configurazioni di allarme (warning pattern) sono in molti casi comprensibili solo a posteriori.

Dal punto di vista metodologico si è arrivati a una impropria sovrapposizione tra previsione e spiegazione: su questa strada spieghiamo, ma non miglioriamo la nostra capacità anticipatoria del fenomeno della radicalizzazione violenta.

In conclusione, il terrorismo che ci attende è nuovamente cambiato e dobbiamo riscrivere una agenda della lotta al terrorismo che è chiamata a rivedere priorità, approcci e punti di attenzione.

Tra questi, certamente si deve riconsiderare l’approccio alla radicalizzazione violenta, che se non fallimentare come finora portato avanti non ha certamente quel valore olistico e risolutivo che si pensava (e sperava) potesse avere.

La via dei “segnali deboli” è utile ma quando contenuta all’interno di specifici ambienti, delimitabili e circoscrivibili a priori per l’osservabilità che offrono: sviluppare modelli (uso di IA, machine learning, algoritmi complessi, …) capaci di rendere conto delle configurazioni (pattern) che si formano nelle reti osservabili (misurabili, confinate, gruppi “liminali”,…) può essere di successo sulla popolazione di un carcere, di una comunità digitale, etc., che favoriscono la spiegazione “a posteriori” di configurazioni emergenti significative.

La via dei “segnali deboli”, invece, non è generalizzabile proprio per i caratteri peculiari di cui sopra e non porta ad alcun successo diretto per una prevenzione diffusa della radicalizzazione.

Ma ha un vantaggio.

Il mondo reticolare e complesso che caratterizza la nostra vita, generatore di una esplosione di possibilità, offre una enorme quantità di percorsi mimetici per raggiungere i medesimi risultati: anche quello del comportamento violento radicale. Di conseguenza, il riferimento ai “segnali deboli” è coerente. Ma se nel mondo lineare e semplice questi erano flag di attenzione che si alzano sul percorso della radicalizzazione, oggi essi ci aiutano a comprendere, nel loro aggregarsi e svilupparsi, la modalità con cui i “warning pattern” si formano. In sostanza, ci viene indicato quale è l’ambiente favorevole allo svilupparsi di un processo di radicalizzazione violenta. In questa direzione, si apre una nuova via alla prevenzione che si interessa meno (almeno in modo sistematico) di intercettate “il radicale violento”, ma si preoccupa di più di promuovere ambienti dis-funzionali al processo di radicalizzazione, caratterizzati dal fatto che i segnali deboli tendono a non assumere configurazioni di rischio.

In realtà, più che di ambienti, si deve parlare di “Ecosistemi Comunicativi Digitali”, da monitorare in termini di (dis-) funzionalità ai processi radicalizzanti per orientarne i caratteri (non-) facilitanti questi processi.

Anche in questo caso, è richiesto un cambiamento di paradigma per il contrasto al terrorismo, incorporando definitivamente il concetto di Ecosistema, cioè di sistema complesso coerente ed equilibrato, autosufficiente ed aperto (reticolarizzazione), costituito da fattori biotici (materia vivente) e fattori abiotici (materia non vivente) in relazione; che si qualifica come Comunicativo e Digitale, cioè caratterizzato da strati (layer) fisici e virtuali in cui gli autori comunicano scambiando informazioni, espandendo conoscenza, relazioni e competenze.