Ebola: il virus super resiliente – by Barbara Lucini

Il virus Ebola sta mettendo a dura prova i sistemi sanitari del mondo intero e la gestione della sicurezza in uno scenario di crisi globale. E’ un momento di paralisi: l’incertezza e in parte il silenzio con il quale si sta affrontando, quella che potrebbe diventare una pandemia di grandi dimensioni sono le dimostrazioni tangibili che le istituzioni sanitarie e i governi erano totalmente impreparati ad affrontare una situazione di questo tipo.Una ragione può essere ritrovata nella mancata analisi del rischio e degli scenari ad esso connessi.

Fino a quando il virus era isolato nel continente africano non ha creato allarmismi: purtroppo siamo drammaticamente abituati all’idea che l’Africa sia lo sfondo per guerre atroci, genocidi di massa, crisi umanitarie di portata illimitata, emergenze sanitarie, carestie alimentari. Invece, siamo meno abituati all’idea che anche “casa nostra”, ordinata – pulita – organizzata, possa essere colpita da un virus “straniero” del quale, almeno per il momento, sappiamo poco: come dimostrano anche le nuove informazioni circa le modalità di trasmissione e i tempi del contagio.

Il rischio psicosi di stampo occidentale-europea esiste, (prendiamo per esempio i recenti casi poi risultati negativi di Milano e Roma), perché al momento non c’è stata una comunicazione efficace circa la reale portata di questo virus. Ricordo anni fa, quando si sono diffuse le influenze dei polli, dei maiali e altre malattie infettive, che i mass media hanno dedicato molti approfondimenti a queste malattie e invece in questa occasione sembra quasi regnare uno stato di oblio.

E’ normale quindi, che con il proseguire della situazione e la persona deceduta oggi (14 Ottobre 2014) in Germania, la paura possa prendere il sopravvento. Il virus ci ha dimostrato che non siamo più così tanto organizzati, ordinati, resilienti. Ci sono state grandi carenze nel sistema della sicurezza sanitaria, poca lungimiranza nel permettere di proseguire la ricerca su un virus di nicchia in anni passati, ma dall’enorme potenziale distruttore. In parte è anche una questione di fondi: pochi finanziamenti sono stati investiti per lo studio e la ricerca di questo virus, permettendo l’aprirsi di questioni etiche relative a concrete disuguaglianze sociali, con la conseguente domanda: se effettivamente il virus si fosse originato e diffuso in un Paese diverso dall’Africa, nel lontano 1976 sarebbe stato lasciato così, senza far nulla? Quali reali interessi ci sono alla base dell’orientamento di ricerca del vaccino? Perché non si sono approfondite le eventuali ripercussioni sanitarie?

Sono domande scomode, forse ciniche, ma che richiedono una considerazione perché le ricadute investono una gestione più efficace di una emergenza che sta, ogni giorno di più, degenerando.

Perché la mancanza di resilienza è anche questo: la creazione e il mantenimento di disuguaglianze sociali, che generano gruppi contrapposti non in grado di gestire la crisi e trovare soluzioni efficaci.

La mancanza di resilienza è ben presente anche nel non corretto utilizzo dei protocolli sanitari di sicurezza, che dovrebbero guidare le azioni e le cure degli operatori sanitari.

Tutto questo alimenta un’altra domanda: come è possibile giudicare validi, efficaci e resilienti, protocolli di sicurezza che mancano di una adeguata analisi del virus? E’ notizia di poco fa, che ora il virus si trasmette per un tempo più lungo prima e dopo la guarigione, seguendo altre modalità di trasmissione, come attesta il nuovo report del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc) datato 6 ottobre.

Una risposta resiliente di un sistema ad un attacco esterno come quello dell’ebola dovrebbe sempre partire da una conoscenza approfondita della causa e dell’agente patogeno, ma ad oggi sembra che ancora alcune caratteristiche di questo virus non siano riconosciute.

Sarebbe meglio essere consapevoli, che stiamo conducendo una battaglia che al momento vede il nemico – il virus ebola – molto più resiliente dei sistemi che impatta. Si adatta, si trasmette, sembra non subire variazioni significate in relazione ai cambiamenti climatici o stagionali e soprattutto è poco conosciuto a chi dovrebbe combatterlo.

Il caso ebola è estremamente interessante per chi si occupa di resilienza: da un lato quella dei sistemi colpiti, che non dispongono di una serie di informazioni e procedure effettivamente utili per la gestione di questa emergenza: è quindi l’immagine di una resilienza caotica, disordinata, con comunicazioni incomplete e frammentate; dall’altro lato la resilienza più nuda e individuale, quella letteralmente di un corpo a corpo fra virus e malato, fra un sistema immunitario che vorrebbe scoprirsi resiliente, ma che per molte persone è stato invece vulnerabile fino alla morte.

Ebola è l’esempio di un impasse istituzionale nella gestione globale di un’emergenza ed è l’esempio di come, nell’era globale di internet, social media, collegamenti continui, la sopravvivenza individuale sia ancora legata, in modo ancestrale, ad una lotta corpo a corpo.

Viene in mente una celebre frase tratta da “L’arte della guerra” di Sun Tzu: “conoscere l’altro e se stessi – cento battaglie, senza rischi; non conoscere l’altro, e conoscere se stessi – a volte, vittoria; a volte, sconfitta; non conoscere l’altro, né se stessi – ogni battaglia è un rischio certo.”

Le azioni per combattere il virus ebola sono direttamente connesse e proporzionali alla conoscenza che abbiamo del virus stesso, dei nostri sistemi sanitari e della loro tenuta in caso di emergenza, delle reali e fattive possibilità di coordinamento globale.

Sempre parafrasando una frase del già citato libro di Sun Tzu: “La capacità di assicurarsi la vittoria combattendo e adeguandosi al nemico è chiamata genialità.”

Forse oggi non è solo genialità, ma resilienza: non sempre infatti assecondare il nemico significa sconfitta, spesso è solo un atto per conoscere in modo più approfondito le sue debolezze e vulnerabilità intrinseche. Prendersi tempo per conoscere il proprio nemico è anche questa prevenzione, ora però il tempo della prevenzione è finito, perché c’è bisogno di comunicazioni chiare e risposte efficaci.