Alluvione di Genova – Ottobre 2014: resilienza dove sei? – by Barbara Lucini

Parlare di resilienza in Italia è solo una moda. Lo è adesso e lo è stata nei decenni passati quando i primi studi internazionali hanno cercato di capire e indagare che cosa intendere e identificare con questo concetto, se e dove fosse applicabile e praticabile. In Italia questo passaggio teorico-funzionale è stato saltato, certi come sempre che la pratica, l’abitudine e “l’esperienza” potessero sopperire alla mancanza indiscriminata di competenze specifiche e valide.

Questa situazione è attestata in modo crudele dalle immagini, i video della città di Genova e comuni limitrofi dopo l’inondazione di pochi giorni fa e l’incombente probabilità di una nuova alluvione.

Genova rappresenta un modello per chiunque voglia studiare il concetto di resilienza e la sua operatività in ambito urbano, per chi è interessato a capire che cosa non fare se si vuole realmente parlare di resilienza o per chi semplicemente crede che le ricerche e gli studi scientifici in qualsiasi ambito debbano essere sempre finalizzati a massimizzare la qualità della vita delle persone e della società.

Un decalogo Urban Resilience, per una possibile città resiliente potrebbe essere così presentato:

  1. essere onesti nel focalizzare i reali problemi di Genova e della Liguria in particolare. Rischio idrogeologico, che è inutile mimetizzare con climate change. E’ una domanda che ancora non trova risposta: perché se la situazione ligure è dovuta a cause geologiche e alla mancata strategia di costruzione degli edifici in sicurezza, l’attenzione di molti programmi e progetti europei è focalizzata sul tema climate change? Attorno a questo punto, da decenni si dibatte se sia possibile, realmente e scientificamente, validare connessioni fra il cambiamento climatico e i disastri che occorrono in diverse zone del mondo. Anche se fosse accertato, in questo caso lo diamo per assodato e consideriamo il cambiamento climatico come agente impattante amplificatore, rimane sempre una questione fondamentale: il cambiamento climatico è più difficile da governare, ma i piani regolatori possono essere modificati a discrezione di competenti policy makers, si spera;
  2. la resilienza come sua caratteristica di base prevede di essere flessibile e adattabile, di certo non come gli atteggiamenti di cronicizzazione e degrado, che stanno affliggendo l’Italia da cinquanta e più anni. La resilienza prevede cambiamenti, condivisi, ma pur sempre cambiamenti. Come si vede, il sistema politico italiano e i suoi sempre uguali modelli di governance non sono inclini al cambiamento e neppure al miglioramento;
  3. la resilienza presuppone fiducia: io cambio, se tu cambi; mi adatto, se tu ti adatti, in una sorta di danza osmotica con obiettivo finale un equilibrio dell’intero sistema. Tale processo non può essere a senso unico: prevede uno sforzo da entrambe le parti, una tensione verso il raggiungimento di qualcosa di più adeguato, perdendo la distinzione delle singole parti. In questo caso la contrapposizione creata nell’immaginario sociale, di due gruppi antagonisti, popolazione e sindaco o rappresentanti istituzionali ha messo in evidenza la vulnerabilità intrinseca di un sistema, nel quale ciò che viene confermata è la consolidazione di poteri differenti, contrastanti, conniventi, ma che trovano la loro ragione d’essere nei singoli interessi che difendono e rappresentano;
  4. la mia personale idea è che realmente queste situazioni di emergenza e disastro sono minuziosamente costruite ad hoc. Come? Tanto per cominciare ignorando sistematicamente la possibilità di intervenire con misure adeguate di prevenzione e comunicazione alla popolazione. Il Giappone lo conferma: una popolazione attiva, resiliente, che in sostanza si salva è quella in – formata. Per la quale quindi, non solo è avvenuta una comunicazione di comportamenti efficaci da tenere in caso di emergenza, quanto un processo formativo andato a buon fine, che permette di comportarsi secondo una logica di efficacia e non la paura. Ascoltare le telefonate dell’alluvione ligure effettuate al 118 causa un moto di ansia. Innanzitutto il destinatario di tali telefonate avrebbe dovuto essere il numero 115 dei Vigili del Fuoco e non il numero sanitario 118. L’emergenza non era sanitaria: le persone nelle auto avevano bisogno di essere recuperate e questa operazione, in una simile situazione è di competenza dei Vigili del Fuoco. Poi la risposta: “andate fuori. Allontanatevi. Ditegli di uscire dalla macchina.” Come? La prima cosa da fare durante un alluvione, che quasi tutti i manuali insegnano, è quella di salire, mai di uscire. Grande esempio di comunicazione non resiliente, cioè non efficace, non adeguata al contesto di emergenza reale;
  5. l’altra considerazione è relativa alla pianificazione e ai piani regolatori che hanno permesso, legittimato, regolamentato la costruzione di edifici in zone non edificabili, nei vecchi letti dei fiumi fatti deviare per incrementare una edificazione selvaggia fra la fine degli anni ’60 e ’70, la stessa strategia che ha reso la Liguria, un fazzoletto di terra fra mare e montagne, meta di un turismo quasi incontrollato;
  6. “gli angeli del fango” sono un’ottima costruzione sociale di aiuto ed etica sociale, ma anche mediatica. Hanno fatto la loro comparsa con l’alluvione di Firenze del 1966 rappresentando simbolicamente la solidarietà intra e inter generazionale di quel tempo. Li abbiamo visti anche a Genova, con una grande attenzione dei mass media, soprattutto per i ragazzi adolescenti che hanno partecipato: sarebbe bello che chi di dovere potesse offrire a questi ragazzi non solo una pala per spalare fango, ma anche informazioni, concetti per una efficace cultura della prevenzione considerato l’ambiente dove vivono;
  7. dopo più di settanta anni di vita democratica del Paese sarebbe necessario riflettere non solo circa gli auspicati cambiamenti delle figure istituzionali, ma concentrarsi sui ruoli ricoperti. Abbiamo bisogno di persone competenti, professionali, che sappiano fare quello che dicono, che lo facciano, che non accettino limiti se non quelli imposti dalla loro professione. Abbiamo bisogno di qualcuno che non si improvvisi, di persone che siano cresciute professionalmente. E’ tempo di cambiare, di essere resilienti anche nella scelta di chi è legittimato a governare e quindi operare scelte di importanza fondamentale per il sistema Paese. Abbiamo bisogno di qualcuno che si assuma le proprie responsabilità e che non si neghi di fronte all’evidenza;
  8. una rapida ricerca su goolge permette di trovare parecchi siti di riferimento a progetti europei o internazionali, che hanno come tema centrale il cambiamento climatico, l’adattamento ecosostenibile, la resilienza urbana. Tutti hanno in comune una cosa: Genova è presente come comune, come Provincia. E’ un dato che fa riflettere e mette in discussione tutte le basi teorico metodologiche che sono le fondamenta della ricerca scientifica. Che cosa servono questi progetti, ampiamente finanziati, se in pratica, nella vita reale nulla cambia. Se è vero che esiste un tempo per il cambiamento, perché è così difficile trovare un raccordo fra questi progetti e le reali situazioni della città e dell’intera Regione? Ho sempre pensato che il fine ultimo di ogni ricerca scientifica sia, non solo la pubblicazione di draft, paper, report, ma delle ricadute pratiche, essenziali, che siano utili per la comunità e che possano offrire soluzioni efficaci per un problema o un fenomeno che si è voluto indagare. La realtà ci dice altro però, che spesso questi progetti rimangono non collegati all’attualità, che le persone comuni, per intendersi le “ordinary people” anglosassoni sono quasi sempre escluse da questi processi, distorcendo in parte la loro percezione;
  9. la questione dell’allerta: il terremoto a L’Aquila nel 2009 ci insegna che questa questione è sempre più difficile da gestire forse anche in mancanza di leggi organiche e protocolli operativi, che affrontino con chiarezza e puntualità l’argomento. In questo caso specifico, il tema non è se le nuove tecnologie o i social network possano avere un ruolo fondamentale nella gestione delle crisi. Sì se guardiamo al dopo come l’organizzazione dei ragazzi partita via Facebook, no se guardiamo in fase preventiva. Ci troviamo di fronte a rappresentanti istituzionali, che tentennano nel dare le comunicazioni: il passaggio circa la riflessione “attraverso quale canale far pervenire il messaggio” non ci interessa in questo momento. Si deve ancora capire prima del “che cosa si comunica”, “chi deve comunicare”, perché ancora non è chiaro;
  10. infine, esiste una splendida e lungimirante letteratura europea e internazionale, che tratta il tema delle catastrofi naturali nel periodo del Medioevo. La considero splendida, perché pone in luce delle riflessioni sostanziali per la vita umana, come ogni disastro del resto.E’ ovvio che tale letteratura sia cultural oriented e quindi identificabile come una rappresentazione fedele del contesto socio-culturale di quell’epoca, ma ci sono assetti di base che rimangono comuni, diventando atemporali. Le categorie del bene e del male, la vittima e il carnefice, il dominato e il dominatore, la colpa e il colpevole per esempio sono intrise di quella cultura mittel europea, che cerca un ordine divino anche nella società di tutti i giorni. Però abbiamo anche altri esempi come quelli documentati dall’antropologo Ernesto De Martino in Sud e Magia (1959) che scrive “Tuttavia la grande possibilità negativa dello stesso lavoro contadino è la tempesta distruttrice dei seminati: in rapporto a ciò si conserva memoria di incantesimi magici ancora impiegati in Lucania in un passato prossimo o anche recentissimo.” O ancora la figura dei “chierici volanti” per dimostrare le connessioni e le dominazioni fra credenze ed eventi metereologici. Analizzando la situazione attuale è possibile sostenere che tutte queste categorie e rappresentazioni ancora esistono, come del resto esiste la necessità per ogni comunità sociale di sentirsi sicura, protetta, ordinata. E’ questo impianto antropologico di base, che si deteriora, si logora ogni volta al verificarsi di un terremoto, di un’alluvione o di un altro evento naturale che impatta in grande misura sulle città e le popolazioni. E’ il venire meno dell’ordine precostituito, sì anche quello fra gruppi conniventi, che mette in evidenza tutte le criticità e le vulnerabilità di un Paese.Ed è proprio qui che la resilienza, quella studiata, dovrebbe fare la sua comparsa per ricucire e ricreare un ordine che possa permettere un minimo di equilibrio funzionale ad una società in via di riorganizzazione.

Questo decalogo vuole essere solo una riflessione circa le concrete possibilità che una città come Genova e molte altre in Italia possono avere per essere considerate e divenire una città resiliente: non è un’impresa impossibile, ma c’è la necessità di un nuovo indirizzo, di nuove visione, dove le competenze siano al centro della discussione.

Nel tempo della scrittura ha iniziato a piovere anche a Milano: la città dell’Expo 2015. Sì, quella stessa città dove da due giorni (e svariati anni) la metropolitana della linea verde per un tratto è allagata, dove a luglio per l’esondazione del Seveso, in zona Porta Romana si è spalancata una voragine di dodici metri poco lontana dall’omonima fermata della metropolitana della linea gialla.

Bisogna sperare che i turisti dell’Expo 2015 siano resilienti, pazienti e in parte conoscano l’italiano perché come al solito ci saranno problemi di comunicazione.