Exit Strategy afghana – Marco Lombardi a Radio Vaticana

La “più lunga guerra nella storia americana arriva a una conclusione responsabile”. Con queste parole il presidente statunitense, Barack Obama, ha salutato la conclusione della missione in Afghanistan dell’Isaf, la “International Security Assistance Force” della Nato che – dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Usa – per 13 anni ha affiancato le forze di Kabul nella lotta contro i talebani. Ieri, nella capitale afghana, si è svolta una cerimonia “blindata” alla presenza del comandante dell’Isaf, il generale americano John Campbell. Dal primo gennaio 2015, dunque, la missione sarà rimpiazzata da una operazione internazionale, con compiti prevalentemente di formazione e assistenza delle forze di sicurezza locali. Ma quale bilancio tracciare di 13 anni di presenza Nato in Afghanistan? L’opinione di Marco Lombardi, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e profondo conoscitore dell’area, intervistato da Giada Aquilino.

Di seguito la sintesi oppure è possible ascoltare l’intervista al Radio Giornale a questo link.

(Lombardi) – L’”exit strategy” si è modulata in maniera molto diversa rispetto alle ipotesi iniziali. Così è per questa missione, nel senso che 13 lunghi anni hanno visto Nato, Isaf, l’Alleanza e tutti i partecipanti attraversare momenti diversi e alterni di fortuna e di impegno. Quindi tirare un bilancio complessivo dei 13 anni è tanto difficile quanto avere una strategia di uscita omogenea. Certo, si è imparato che l’approccio strategico dell’andare, combattere per imporre un regime diverso dal precedente – magari quello che si intende essere democratico, che però non ha fondamenti culturali laddove si vuole andare ad innestarlo – forse è una strategia che deve essere rivista nel profondo.

– La Nato, che in Afghanistan ha perso quasi 3.500 uomini dal 2001, ha ammainato la propria bandiera, ma le azioni dei talebani sono tutt’altro che finite, tant’è che gli stessi talebani si sono dichiarati vincitori sulla Nato. Che rischi ci sono ora?

(Lombardi) –  I talebani non hanno torto se alla fine l’essere vincitori o sconfitti si misurava sull’inserimento di un regime diverso e la sconfitta totale di chi precedeva. Sicuramente, si tratta di un Paese con un rischio diverso: se lo si pensava 13 anni fa come la culla di al Qaeda, oggi sicuramente non lo è più, quindi il rischio è quello di trovarsi oggi in un Centro Asia – anzi non è un rischio, ma una certezza – che è sempre più instabile, perché manca sia una politica interna comune ai Paesi dell’area, sia una politica esterna globale rispetto a quello che è veramente l’ombelico del mondo per la geopolitica internazionale.

– L’Afghanistan ha un nuovo presidente, Ashraf Ghani, ma i disaccordi con il suo rivale Abdullah Abdullah non hanno permesso la formazione di un governo a tutti gli effetti. Cosa pesa su questa intesa mancata?

(Lombardi) – Un presidente lo si fa facilmente, un governo lo si fa con molta più difficoltà. Quindi, la scommessa è sulla “governance” e non sulla presidenza ed è del tutto aperta, con estrema poca chiarezza in Afghanistan.

–  A mancare, quindi, è una pacificazione generale. Però, di fatto, di cosa ha bisogno l’Afghanistan visto che a gennaio prende il via una operazione internazionale per l’aiuto e la formazione dell’esercito locale?

(Lombardi) –  Di una forma di riconciliazione nazionale, che i suoi cittadini vogliono, che abbia la possibilità di esprimersi con un metodo di governo che sia accettato dalla popolazione locale. Ricordiamo che l’inno afghano cita 14 gruppi etnici differenti, ci sono circa 600 tribù, le lingue ufficiali sono due, senza contare i dialetti e i codici tribali che sono numerosi. Questo è l’Afghanistan: non è un popolo, ma un insieme di popoli che calpestano la medesima terra. Quindi, il compromesso è proprio su questo: in che modo popolazioni che hanno questa forma di organizzazione e di dimensione culturale possono trovare una modalità di convivenza pacifica? L’Afghanistan da tale punto di vista è un laboratorio interessantissimo – perché la maggior parte del mondo è come l’Afghanistan – per capire quali sono le forme di governo possibili diverse da quelle che ancora conosciamo.