Il Califfato vieta il networking sui Social – by Gabriele Mori

«Così, dalla data di questa comunicazione, usare siti per social network è interamente e totalmente vietato». Risale a poche settimane fa – 14 maggio 2017 –  il documento del sedicente Stato Islamico emerso in questi giorni che intima con decisione ai suoi uomini di non usare in alcun modo i siti di social network.

In realtà non è il primo caso in cui Daesh, grandissimo comunicatore e fruitore dei social, dà direttive restrittive sull’uso di questi. È però la prima volta che dichiara di essere contrario a qualsiasi utente ne faccia uso a prescindere dal come.

In passato – settembre 2015 – era stato dichiarato che, dato che «Precedentemente la Commissione aveva pubblicato un documento riguardo i tentativi di avere a che fare coi media, e abbiamo visto alcune violazioni di questa dichiarazione», allora «emiri, soldati e tutti coloro ben noti per la loro affiliazione con lo Stato Islamico sono avvisati di non creare account sui social network riportanti i loro nomi e di non prendere posizione difendendo o supportando specifiche fazioni».

Oggi però, nel documento del maggio 2017, non si parla più di non creare account o di non supportare eventuali fazioni (quest’ultimo ordine era stato dato per via di diversi spaccamenti ideologici all’interno di Daesh) bensì viene fatto divieto assoluto sull’uso dei siti adibiti a social network. Sembrano rimanerne fuori le app per il social networking (ad esempio Telegram – la piattaforma per smartphone sfruttata da Daesh per sua sicurezza e per la possibilità di seguire canali di proselitismo e consigli pratici per diffondere ed implementare la jihad).

Daesh, che dei social ha fatto da sempre il suo cavallo di battaglia, stringe ora le sue stesse briglie andando incontro, per forza di cose, ad una limitazione del suo potere propagandistico.
Perché questa mossa? Ci sono diverse spiegazioni possibili, come anche evidenziato dal Combact Terrorism Center.

  1. Una prima, che è quella più evidente e di facciata, consiste nel fatto che i siti dei social network sono pieni di spie che possono mettere a rischio i combattenti e la comunità islamica – noto è il caso di un combattente che postò un selfie con la propria geolocalizzazione, ricevendo poco dopo, sulla sua posizione, un bombardamento aereo americano. Si tratterebbe quindi di una semplice politica di riduzione del rischio. Il documento di questo maggio recita infatti che «I nemici della religione hanno sfruttato vari metodi per penetrare i ranghi del muwahhiddin [in questo caso sinonimo di “movimento islamico”] ed imparare i loro segreti. Tra questi metodi vi sono i siti di social network […] che portano un grande danno alla Jama’ha [“la Maggioranza”, ossia la comunità islamica], specialmente per coloro i quali non sono consapevoli che questi strumenti sono stati inventati dai nemici di Allah e del Suo Messaggero e vengono monitorati da loro giorno e notte». Si noti come venga implicitamente sfruttata la tipica retorica che ciò che è prodotto dagli infedeli sia per definizione non affidabile. Questo tipo di argomentazione è una costante sfruttatissima nelle narrative di Daesh nonostante venga scelta quasi sempre per opportunismo e non per la sua logicità: il ricorso abbondante a veicoli, droni e armi occidentali ne è palese testimonianza.
  2. Sulla falsa riga del comunicato di settembre 2015 si potrebbe anche desumere che i precedenti ordini restrittivi sull’uso dei social non siano stati sufficientemente rispettati. E infatti, una seconda spiegazione del nuovo divieto di maggio 2017, può essere ritrovata nel fatto che Daesh sta pagando lo scotto di essere una “organizzazione” in parte sì gerarchizzata, ma in buona parte basata su loose network, reti che, in quanto “lasse”, sono più facilmente portate a frammentarsi in forme sub-organizzative autonome potenzialmente in conflitto con la morale promossa dai vertici. Secondo questa interpetazione la mossa di Daesh costituirebbe una politica di controllo.

Pertanto se da un lato la nuova imposizione dimostra una rinnovata consapevolezza di Daesh sotto il profilo di spionaggio e contro-spionaggio della social network intelligence, dall’altro ci indica anche la sua paura rispetto alla perdita di controllo sulla proliferazione di fazioni interne conflittuali o in generale sui pensieri critici dei propri seguaci che possano minare la credibilità di quanto affermato dal sedicente Stato Islamico.

Questa dinamica lascia aperte alcune domande:

  • Cosa succederà a coloro i quali non rispetteranno i rinnovati ordini di Daesh? Sarà in grado, il sedicente Stato Islamico, di implementare le proprie manovre di enforcement della sua nuova norma qualora un suo soldato non la rispettasse? Non c’è il rischio di avere imposto un divieto troppo difficile da far osservare (dato anche che non è stato riservato ad una specifica area geografica sotto il suo controllo militare) con una conseguente perdita di credibilità laddove non venisse rispettato?
  • Se i seguaci del sedicente Califfato abbandoneranno i siti social non ci sarà un enorme abbattimento della potenza comunicativa della Daesh-community? Daesh saprà ovviare a questa perdita o pagherà lo scotto di un forzoso ripiego di riduzione dei rischi? Dobbiamo aspettarci un effetto displacement, di spostamento, dai social site alle social app? Daesh ha calcolato che in questo caso le attività di monitoraggio di cui esso stesso parlava risulteranno avvantaggiate dalla minore frammentarietà delle piattaforme comunicative che saranno confinate alle applicazioni social da smartphone? E se lo ha fatto, ha già in mente delle strategie per ovviare ad un problema che non verrebbe eliminato ma semplicemente rimandato?