Per combattere Daesh, contro-narrative e narrative-alternative sono strategie superate –  by Marco Lombardi

Il tema delle contro-narrative o delle narrative alternative è stato al centro del dibattito per tanto tempo. Senza alcuna conclusione almeno in Italia e con scarse conclusioni misurabili per gli effetti ottenuti nei paesi dove queste iniziative sono state realizzate.

Ma ormai queste sono strategie superate.

La questione è rapidamente inquadrabile nel contesto di un terrorismo che è per sua natura comunicazione (l’obiettivo del terrorismo è fare paura e la minaccia – atto comunicativo – è un ottimo strumento in questa direzione!) e di un terrorismo islamista, recente, che ha saputo interpretare al meglio le capacità della comunicazione mediale, a fini di propaganda e reclutamento. Appare pertanto ovvio che una strategia di contrasto a questo terrorismo avrebbe dovuto percorrere i medesimi canali comunicativi, fornendo una diversità di visioni e argomentando quelle proposte, invece rimaste troppo sole.

In realtà l’Europa ha soprattutto parlato di queste strategie comunicative senza renderle operative, quando al contrario lo stesso Daesh si attivava contro di essa utilizzando, in particolare, gli strategici servizi del giornalista inglese John Cantlie (ricordiamo la prima serie “Lend me your ears” e gli episodi di “Inside” Kobane, Mosul e Aleppo).

Una attività di contrasto narrativo si era sviluppata già prima della affermazione del Califfato in Gran Bretagna, per poi accentuarsi anche in un quadro più istituzionale dopo gli attacchi sul suo territorio. Così come fece la Francia, colpita duramente nel 2015. Il senso di queste iniziative era soprattutto orientato a ostacolare la capacità di fascinazione di Daesh che attraverso le strategie di propaganda ingrossava le proprie file con un efficace risultato nel reclutamento dei giovani. Intelligentemente si era capito – ma ancora non tutti sono arrivati a questa conclusione – che non si può contrastare la comunicazione digitale spegnendola, lo si deve fare attaccandola sul medesimo piano comunicativo. Ma proprio per questo, una battaglia efficace richiedeva argomentazioni consistenti divulgate da fonti nelle quali i destinatari avessero fiducia: due requisiti che hanno reso difficile sviluppare narrative di contrasto efficaci perché: a) l’Europa conosce poco e male l’Islam e il radicalismo che si esprime nel terrorismo; b) le fonti non sono mai state sufficientemente affidabili. Le soluzioni hanno di volta in volta utilizzato ex combattenti di ritorno che raccontavano la propria deludente esperienza, madri disperate per avere perso un figlio in Siraq, islamisti che argomentavano la non correttezza dei presupposti fondanti il radicalismo terrorista. Il risultato di questi tentativi non ha mai avuto alcuna certificazione di efficacia ma, d’altra parte, non è possibile neppure misurare quello che sarebbe potuto essere e che, forse, non è stato a ragione di queste stesse strategie.

Io sono del parere che quello che si poteva fare è stato giusto farlo.

Allora.

Perché adesso le cose sono cambiate.

Da metà agosto 2017, dall’attacco di Barcellona, Daesh è profondamente cambiato. In questi ultimi mesi abbiamo avuto il terrificante sprazzo della Rambla, seguito a un mese (settembre) da quello sulla metropolitana di Londra. Entrambi hanno innescato una catena rapida, nell’esplodere e nel terminare, con gli attacchi a Turku, Surgut, Brussels (dopo Barcellona) e a Parigi, Chalon e Birmingham (dopo Londra). Infine, ancora un mese dopo (ottobre) Daesh perde il controllo del territorio a Mosul e Raqqa. Questi tre mesi spazzano via il terrorismo che abbiamo conosciuto in questi ultimi tre anni e aprono una nuova stagione in cui per certo il terrorismo continuerà a colpire ma organizzandosi in una forma differente rispetto a quella finora mostrata. Insomma: possiamo già dire che Daesh è stata una espressione storica del terrorismo e che quest’ultimo sta cercando una nuova forma organizzativa con cui continuare il conflitto ibrido di cui è attore importante.

Io credo che Daesh fosse consapevole della sconfitta che lo attendeva sul campo: è sempre stato un’organizzazione sufficientemente lucida nelle strategie, che ha valutato le vulnerabilità dei kuffar oltre che le proprie.

Dunque abbiamo segni evidenti di questo cambiamento a partire da metà agosto che si rilevano soprattutto in

  • Una comunicazione che si è sempre più frammentata, affidandosi alla capacità reattiva di singoli competenti che affidavano alla rete i loro messaggi di giubilo o rivendicazione. Senza una presenza forte delle agenzie comunicative di Daesh né un coordinamento della comunicazione stessa;
  • Una manifestazione virale di comportamenti imitativi che sono seguiti agli eventi maggiori (Barcellona e Londra) innescando piccoli attacchi che consideriamo terroristi per il modo con cui sono stati portati, piuttosto che per le motivazioni che hanno sostenuto i loro perpetratori;
  • La comparsa di una serie come “Knights of Lone Jihad” – nella assenza della comunicazione istituzionale di Rumiyah – che non vuole fare proseliti ma vuole attivare, indipendentemente dalle loro motivazioni, potenziali attaccanti, semplificando al massimo le modalità operative e senza richiedere alcun sacrificio di sangue da parte del terrorista;
  • L’assenza di una forma sistematica, articolata di reclutamento e l’invito – spesso il comando – a non muoversi verso le terre del Califfato per attivarsi in patria.

Sono questi i caratteri degli ultimi mesi di Daesh che conclude la sua parabola con la diaspora dei combattenti, favorita anche da accordi presi sul campo, il cui rientro pone alcune incognite.

In questo contesto profondamente cambiato le strategie di contrasto narrativo così come, finora, erano state discusse non servono più. La loro efficacia era soprattutto relativa a ridurre il processo di radicalizzazione e di reclutamento e la loro stessa natura – contrasto comunicativo – le inquadrava all’interno di un processo relazionale (comunicativo) a più voci, in cui proprio la voce da contrastare (Daesh) fosse ben presente. Oggi Daesh è silente e il reclutamento non avviene più in quelle forme: le contro-narrative dell’anno scorso sono una perdita di tempo ed energie perché lo scenario della comunicazione è profondamente diverso.

Oggi i tentativi – non efficacissimi – del Califfato soccombente sono quelli di rilanciarsi in nome dei successi del passato (questi i temi della più recente sua pubblicistica) con un effetto “reducismo” che non sembra efficace e che potrebbe essere contrastato reclutando nei circuiti comunicativi quei Foreign Figther di ritorno che sono profondamente insoddisfatti dell’esperienza sul campo. Questi particolari testimonial posso essere l’unica linea efficace di narrativa di contrasto da sviluppare in questo momento.

Anche perché i rischi vengono da altro, che neppure è il combattente di ritorno.

Ma piuttosto da chi si è radicalizzato nell’ultima fase ed è stato fermato prima di poter andare a combattere per Daesh: quelli come Fatma Ashraf Shawky Fahmy ed altri, che non sono riusciti a partire e, dunque, si sono resi disponibili a immolarsi; quelli che vivono nel mito non esperito del Daesh sognato che li ha condotti alla radicalizzazione. Il pericolo sono quelli che sono restati più ancora che quelli che tornano. E verso di loro non ci sono contro-narrative possibili a sbarrargli il passo.

Né ci sono per quelli che tornano per colpire: gli attivatori.

Esiste infatti un legame tra le “Fatma” che avrebbero voluto partire, i destinatari dei messaggi di “Knights of Lone Jihad” e i Foreign Fighter che rientrano: questi ultimi infatti potrebbero essere i loro attivatori.

Il problema di Daesh in questo momento è di sopravvivere al cambiamento, riorganizzandosi in una nuova forma funzionale, facendo fronte ad avversari che si ritrovano nella vecchia scalcagnata “coalizione” ma anche nei fratelli di al-Qaeda (cfr. 7/1/18 il documento “The General Leadership of al-Qa’eda) che mettono le mani avanti. In questo senso i combattenti di ritorno (i returnee) sono materiale da non sprecare ma del quale è opportuno – ammettendo la pianificazione della sconfitta da parte di Daesh – trarre massimo vantaggio, per esempio, affinché aiutino altri a immolarsi.

Così nascono gli attivatori: i returnee il cui compito è aggregare, con una funzione di facilitatore, i volonterosi alla partenza ormai destinati a restare, con un effetto moltiplicatore del danno rilevante secondo la logica del preferire numerosi attacchi a bassa intensità.

In questo mutato contesto la minaccia si sta riarticolando per dare tempo al terrorismo di riorganizzarsi senza mostrare di allentare troppo la presa sui kuffar. Ma in questo mutato contesto la strategia comunicativa delle contro-narrative è ulteriormente limitata e certamente in seconda linea rispetto alla rinnovata necessità di calpestare quotidianamente il territorio, da parte degli operatori di una intelligence italiana diffusa, per raccogliere i segnali più che deboli che l’azione degli attivatori può lasciare.