“Scrivere da morire”. Scrittura, libertà e   violenza culturale – by Giacomo Buoncompagni

Per il sociologo Walter Ong la scrittura è uno dei media più potenti in grado di influenzare la storia delle civiltà, le relazioni e i conflitti tra gli esseri umani. È stata l’introduzione della scrittura a trasformare lo stile cognitivo e la coscienza degli uomini, producendo nuovi modelli di pensiero che hanno reso possibile l’enorme sviluppo della/e cultura/e.

La recente vicenda dell’attentato a Salman Rushdie, ne è un esempio.

Il 3 luglio Ettore Capriolo veniva aggredito nella sua casa di Via Curtatone, a Milano. Poche ore prima aveva fissato un appuntamento con una persona, per conto dell’ambasciata iraniana in Italia, che si presentò armata chiedendogli con insistenza l’indirizzo dello scrittore Salman Rushdie. Capriolo era il traduttore italiano de I versi satanici, celebre lavoro di Rushdie pubblicato per la prima volta nel 1988, un romanzo che rivisitava in chiave onirica l’episodio dell’ispirazione di Maometto. Per questo motivo il Grande ayatollah iraniano Khomeini ne decretò la condanna a morte per bestemmia, costringendo lo scrittore indiano a vivere sotto scorta.

Lo stesso anno Hitoshi Igarashi, traduttore, accademico e islamista giapponese, venne trovato nel suo ufficio pugnalato al cuore.

Due anni prima aveva tradotto I versi satanici.

Nel 1993, la mattina dell’11 ottobre, l’editore norvegese William Nygaard venne ferito da tre colpi di arma da fuoco. Stesso movente. Nel 1989 infatti aveva fatto pubblicare l’edizione norvegese del controverso romanzo di Rushdie.

Solo nel 2018 si è scoperto che i suoi attentatori erano persone legate al regime degli ayatollah.

Rispetto ai traduttori dei suoi lavori, l’inferno, per lo scrittore Salman Rushdie, inizia molto tempo prima.

Precisamente l’anno dopo la pubblicazione del libro, nel 1988.

Sono trascorsi 33 anni, ma quelle parole scritte e tradotte, quel romanzo ormai conosciuto in tutto il mondo, hanno reso e fanno ancora di Rushdie un bersaglio ancora da abbattere definitivamente.

Il 12 agosto 2022, infatti, poco dopo esser salito sul palco del Chautauqua Institution di New York, per tenere una conferenza, lo scrittore viene ripetutamente accoltellato al collo, ad un occhio, al braccio, all’addome, da un giovane di origini libanesi, Hadi Matar, di 24 anni. L’autore dell’attacco è nato in New Jersey da una famiglia emigrata da Yaroun, città del sud del Libano, in una zona controllata da Hezbollah, gruppo radicale sciita molto vicino all’Iran. I giornali americani hanno raccontato che i profili social di Matar raccoglievano molti post di supporto per l’Iran e i suoi leader.

Le notizie più recenti dicono che ora Salman Rushdie sta meglio. È cosciente, non ha più bisogno del respiratore ed è in grado di parlare.

A qualche giorno di distanza dall’attacco, considerando quanto finora descritto, la sensazione è che l’attentato sia passato del tutto inosservato. O comunque, avrebbe meritato più attenzione. Almeno all’interno del dibattito pubblico italiano e europeo.

La maggior parte dei media mainstream non sono andati oltre la notizia del giorno, l’attacco o il miglioramento della salute dello scrittore.

Così come molte istituzioni nazionali  e non sembrano ancora oggi aver ignorato l’aggressione a uno dei simboli della scrittura contemporanei, cardine della nostra civiltà, esempio di libertà di pensiero e di espressione senza condizione.

Un simbolo che vive tra le parole e di scrittura, che ha rischiato (e continuerà a rischiare) di diventare un martire. 

La drammatica vicenda di Rushdie testimonia in modo esemplare la natura profonda di questo nuovo modo di intendere l’impegno civile, i conflitti culturali, la giustizia, la politica, il dibattito pubblico.

Dimensioni che non rappresentano più un ideale universalistico ed egualitario, ma sono l’affermazione di particelle identitarie alimentate da odio e violenza.

L’attentato a Salman Rushdie è la storia del conflitto fra l’ideale illuministico di libertà ed eguaglianza universalistiche e il pensiero conservatore identitario che pensa in termini di comunità e considera ogni “offesa” alle proprie idee come una minaccia alla dignità di quelle stesse comunità.

Ogni anno si ripropone una violenza psicologica e culturale individuale (e collettiva allo stesso tempo) che sembra non avere fine.

Ogni anno nell’anniversario della sua condanna avvenuta il 14 febbraio 1989, lo scrittore riceve un inquietante biglietto dall’Iran che gli ricorda che nessuno ha dimenticato quanto pubblicato.

Resta infatti una taglia di 3,3 milioni di dollari.