COVID-19: la crisi del Crisis Management – by Barbara Lucini

I sentimenti della massa sono sempre semplicissimi e molto esagerati. La massa non conosce quindi né dubbi né incertezze. Corre subito agli estremi, il sospetto sfiorato si trasforma subito in evidenza inoppugnabile, un’antipatia incipiente in odio feroce. […] (Freud, S. Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921)

La scoperta dei contagi da coronavirus in Italia ormai una decina di giorni fa, ha tristemente aperto gli occhi sulla situazione nazionale e la gestione delle emergenze.

Le scene di panico che si sono verificate nel penultimo fine settimana di febbraio, con supermercati presi d’assalto, gel disinfettanti mani e mascherine esaurite, sono il prodotto quanto più reale possibile di una sfiducia, latente ma presente negli effetti, dei cittadini nelle istituzioni, così come la non comprensione degli eventi spesso determinata da una comunicazione di stati emergenziali e catastrofici.

Per chi si occupa di crisis management molti aspetti di questa situazione non hanno funzionato:

  1. la comunicazione mediatica incalzante e catastrofica della prima settimana di contagio ha condotto a un innalzamento dello stato ansioso della popolazione e non ha servito il fine ultimo della comunicazione in caso di emergenza o crisi, che è quello di informare le persone affinché possano mettere in atto comportamenti sicuri e di prevenzione. Lato opposto della medaglia all’arrivo del team dell’OMS, momento dal quale la comunicazione si è placata in modo vistoso, cambiando anche i toni stessi dei messaggi;
  2. la comunicazione via social, sempre più emotiva, ha spesso aggiunto confusione rispetto a un quadro cognitivo già di difficile comprensione per le varie notizie, a volte discordanti, che si avvicendavano a ritmi serrati;
  3. da una prospettiva metodologica e operativa, il coordinamento nazionale, che una simile situazione esigeva ha tardato a essere applicato, lasciando la gestione del contagio nelle mani di enti locali e regionali promuovendo un effetto di gestione della crisi a macchia di leopardo, rendendo ancora più complesso il quadro interpretativo;
  4. vi è stata una sottovalutazione delle interdipendenze industriali e una mancata conoscenza delle tipologie delle aziende e del loro business nelle aree, come quella del lodigiano, che poi sono state le prime interessate dal contagio di coronavirus. Apprendendo la notizia, peraltro già in ritardo, dal governo cinese agli inizi di gennaio, forse un’attività di valutazione di un potenziale impatto nelle zone con più industrie legate alla zona cinese già in stato di contagio, sarebbe stata opportuna. E’ solo notizia di qualche giorno fa che entrambe le zone più colpite, il basso lodigiano e la zona dei colli Euganei, intrattengono relazioni economiche e industriali importanti con la Cina: un particolare dimenticato, ma di estrema rilevanza per comprendere gli spostamenti, che semplicemente via scali terzi e senza voli diretti, si sono sempre avuti con la Cina e viceversa;
  5. vi è stata una sottovalutazione di che cosa la popolazione locale già conoscesse rispetto a questa malattia e invece quali informazioni necessitava per essere più consapevole del rischio al quale è esposta e alle modalità migliori per rispondere anche in modo preventivo: le comunicazioni sociali su come lavarsi le mani o mantenere il metro di distanza andavano fatte ben prima che non a catena di contagio iniziata;
  6. è ancora più triste notare che quanto occorso in Piazza San Carlo a Torino durante la finale di Champions del 03 Giugno 2017, non abbia insegnato nulla: la popolazione possiede di per sé immaginari e narrazioni personali, non sempre condivise, che vengono attivate in modo disordinato, caotico e pericoloso, qualora chi è tenuto a governare e gestire eventi critici non lo faccia nel modo più opportuno;
  7. l’immagine nazionale e internazionale di alcune regioni del Nord Italia è stata compromessa ed è servita a confermare stereotipi e pregiudizi circa “gli Italiani nel mondo”: un cattivo esempio di comunicazione, che ha portato a effetti che avranno ripercussioni pratiche di medio – lungo periodo;
  8. la continua comunicazione che le morti da coronavirus non ci sono, ma è il coronavirus che ha compromesso quadri clinici già precari di persone anziane: considerando che una grande parte della popolazione italiana ha più di 65 anni, non è un messaggio positivo, anzi porta ad accrescere ansia e disorientamento in una popolazione, che possiede caratteristiche intrinseche di vulnerabilità legate ad aspetti demografici e appunto sanitari;  
  9. le liti fra esponenti della comunità scientifica. In casi come questi, la comunità scientifica è l’àncora resiliente, che permette alla popolazione esposta al rischio di orientarsi rispetto a categorie ed elementi che non sempre conosce, che sostiene strategie di risposta e preventive.

Il coronavirus ha messo in discussione anche questa certezza e le liti via social e televisive fra medici e virologi con idee differenti non ha aiutato nella comprensione del fenomeno

Tante vulnerabilità e criticità, che hanno sede in una mancata valutazione delle connessioni reali in questo mondo sempre più interdipendente.

Fino a quando non si riconoscerà il legame – a volte apparentemente invisibile – fra settori e persone spesso considerate indipendenti, l’esposizione ai rischi nuovi ed emergenti sarà sempre più alta.

Un crisis management resiliente è proprio quello che mette in atto i principi di coordinamento fra più parti e di comunicazione della crisi finalizzata a comprendere lo scenario di rischio, interpretare la minaccia e orientare comportamenti sicuri per i singoli e per i gruppi.