Da Foley a Muad al-Kasaesbeh: cosa cambia nella comunicazione di IS – by Marco Lombardi

Scrivevo il 3 febbraio: “Il regista IS sembra essere il gatto che gioca col topo: gli fa prendere fiato per tiragli la zampata più pesante”. E ora continuo cercando di leggere la comunicazione di IS di questi ultimi mesi relativa ai più recenti abominevoli assassinii.

Certamente all’interno della comunicazione che ha riguardato il pilota giordano si manifesta anche un messaggio diretto verso la Giordania, in cui l’opposizione a IS non è così certa per molti strati della popolazione di cui tra i 3000 e  4000 uomini già combattono con i jihadisti, una minaccia ai Paesi confinanti col Califfato, mira diretta della sua espansione e consolidamento, e un indirizzo a chi colpire, mostrando identità e fine riservata ai soldati della coalizione.

Ma questo video sembra aggiungere altro alla complessa strategia comunicativa del Califfato, tutto teso a presentarsi come uno Stato, che con queste immagini provoca direttamente la reazione istintiva alla brutalità: emerge un secondo obiettivo, accanto a quello della istituzionalizzazione, che è quello della “doppia radicalizzazione”. Credo che si possa chiaramente parlare di un obiettivo cercato e pianificato se si leggono nella sequenza le comunicazioni che riguardano le prime cinque decapitazioni, la cesura del video di Kassig a metà novembre, l’intermezzo dei due giapponesi e la fine del pilota giordano:

  • le prime cinque sequenze (James Foley 19 agosto 2014, americano, giornalista; Steven Sotloff 2 settembre 2014, americano, giornalista; David Haines 13 settembre 2014, inglese, cooperante; Hervé  Gourdel 24 settembre 2014, francese, guida alpina; Alan Henning 3 ottobre 2014, inglese, cooperante) seguono il medesimo copione sia negli annunci sia nella esecuzione, di impatto, che ormai dava segni di stanchezza per il pubblico della “televisione di flusso”;
  • Kassig (16 novembre 2014, americano, cooperante) rompe lo schema, per necessità o scelta come discusso, e crea una cesura in cui la regia coglie l’occasione per inscenare rappresentazioni più complesse: un rituale comune che propone uomini in mimetica militare, alcuni evidentemente occidentali. L’emozione della paura resta, ma forse più sottile per la minaccia diretta di tanti boia potenziali “vicini di casa” e meno di impatto benché supportata da una accurata coreografia. Il regista sta facendo evolvere la serie, con la continuità richiesta dal pubblico, inserendo novità che non capovolgono senso e prospettiva;
  • i due giapponesi (Haruna Yukawa 24 gennaio 2015, giapponese, lavorante per una società di sicurezza; Kenji Goto 31 gennaio 2015, giornalista) evidenziano una parentesi, una sorta di stasi che permette un respiro agli osservatori: è una pausa voluta, il video del pilota giordano era probabilmente in fase di post-produzione e, certamente, il soldato era già stato sacrificato;
  • con Muad al-Kasaesbeh (video del 3 febbraio 2015) la pausa si interrompe con un sussulto improvviso e brutale, ma atteso e coerente nella logica mediatica, indirizzato a “far saltare sulla sedia” lo spettatore provocandolo direttamente sul piano emotivo, andando a cercare la reazione spontanea che il bruciare vivo un uomo produce (soprattutto nel modo con cui è stato raccontato). Di Kassig riprende, ancora più elaborata, la coreografia, la presenza degli uomini schierati coralmente come comparse nelle medesime mimetiche: rielabora e continua quel messaggio terrificante, avendo utilizzato la pausa come booster della comunicazione.

Tale sequenza di comunicazione evidenzia, all’inizio del 2015, un secondo obiettivo che non sostituisce ma si affianca e rafforza quello della istituzionalizzazione: è l’obietto della promozione del conflitto generalizzato e diffuso che la reazione, indignata e comprensibile, alle immagini può favorire nei paesi europei, reazione a cui si è arrivati attraverso la sequenza di video prodotti. Accanto alla strategia della comunicazione istituzionalizzante ecco la strategia della comunicazione emozionale: entrambe due trappole che IS ha ancora una volta predisposto e in cui si sta rischiando di cadere.

Definisco questo secondo schema comunicativo, relativo alle medesime serie, come orientato a una “doppia radicalizzazione”: da una parte promuove IS alla ricerca di proseliti e nuovi combattenti, non dimentichiamo infatti che l’orrenda fine del pilota è “compresa” come restituzione a chi con le bombe aveva fatto lo stesso contro i villaggi di IS e che l’indignazione che suscita non è necessariamente condivisa da tutti gli spettatori. Dunque promuove la forma di radicalizzazione a cui siamo abituati. Ma dall’altra parte, proprio perché indigna esasperando e sorprendendo un altro pubblico, stimola la reazione violenta verso un nemico ri-generalizzato nella forma della “bestia” (il commento più frequente comparso sui media) ma specificato nella sua caratteristica islamica. Il risultato è quello di una seconda radicalizzazione di una parte del mondo europeo e occidentale che è spinto a reagire. Primi segni sono:

  • tra il 4 e 5 febbraio un maldestro tentativo di incendiare il Centro culturale islamico di Massa Lombarda: “Un principio d’incendio intorno alle 4.30 ha interessato il davanzale di una finestra della struttura, che si trova in angolo tra via Marchetti e via Quadri. Qui è stata lasciata un oggetto con stracci imbevuti di liquido infiammabile. Le fiamme hanno danneggiato la finestra e gli infissi e diversi tappetini per la preghiera che si trovavano all’interno. Il fumo ha annerito le pareti della struttura.”;
  • l’inevitabile radicalizzasi del dibattito politico che coglie al volo l’opportunità per condurre battaglie che incorporano germi di xenofobia o razzismo il cui unico risultato è quello di rendere più difficoltosa l’azione di governo contro il Califfato, possible solo se unitaria;
  • ma anche le esternazioni di tradizionalmente influenti imam come Ahmed al-Tayeb (4 febbraio 2015) dell’università di Al-Azhar al Cairo, il più prestigioso centro d’insegnamento dell’Islam sunnita, che dopo l’ammazzamento del pilota giordano, condannando l’atto terroristico, ha sostenuto che si deve richiedere “la punizione prevista dal Corano per questi aggressori corrotti che combattono Dio e il suo profeta: la morte, la crocefissione o l’amputazione delle loro mani e dei piedi”….senza alcun risultato perché l’islam tradizionale non è più in grado di dire nulla a IS. Pertanto esponendo lui, e gli altri clerici, alla evidente debolezza che ormai hanno nel mondo islamico radicale ma anche coinvolgendoli nei potenziali conflitti emergenti in occidente in quanto difensori del’Islam: stanno “tagliando loro la testa” efficacemente sul piano rappresentativo.

Insomma: il 2015 si inaugura con un altro salto di qualità del Califfato che probabilmente in questo modo reagisce anche alle difficoltà che affronta sul terreno.

Ma per ora la reazione, ancora una volta, è solo da parte sua.