Il cambio di strategia di Hamas verso il jihad globale -by Giovanni Giacalone

L’eccidio di civili perpetrato da Hamas lo scorso 7 ottobre ha sconvolto l’opinione pubblica e la comunità internazionale, infiammando nuovamente l’eterna questione israelo-palestinese e riportando al centro dell’attenzione mediatica e politica il problema del terrorismo di matrice islamista, messo nel dimenticatoio dall’emergenza Covid e dalla guerra in Ucraina. In molti hanno commesso l’errore di credere che il problema del jihad globale fosse sparito dopo la disfatta territoriale dell’ISIS nel Siraq (che non implica però una sua sconfitta), ma la realtà è ben diversa.

Quella mattina il mondo si è improvvisamente svegliato scoprendo che l’orrore jihadista esiste ancora, che Hamas non è prettamente un attore politico legittimato da delle elezioni avvenute 17 anni fa e dai risvolti certamente non democratici.

L’eccidio ha mostrato un orrore agghiacciante e senza precedenti da parte dei terroristi di Hamas, con bambini decapitati, stupri di vivi e di cadaveri, torture, persone bruciate vive, anziani maltrattati; un numero impressionante di persone sequestrate (224 allo stato attuale, ma i numeri sono in costante mutamento man mano che le indagini delle autorità israeliane proseguono) e trasferite a Gaza per essere utilizzate come “merce di scambio” e come scudi umani. Attenzione, sequestrate nel proprio Paese, uno di quelli con le misure di sicurezza più elevate a livello globale e non su qualche volo dirottato, come poteva accadere negli anni ’70 o ’80.

Stavolta Hamas ha mutato totalmente il proprio modus operandi e i propri obiettivi in maniera talmente radicale che non è possibile non fare delle riflessioni al riguardo.

Un’operazione di tipo militare al servizio del terrorismo

Hamas ha messo in atto un’operazione coordinata, con centinaia di terroristi suddivisi in cellule che dopo aver distrutto la recinzione di confine in più punti con esplosivi e bulldozer, hanno neutralizzato le postazioni militari e si sono diretti verso i centri abitati dove hanno poi perpetrato i crimini contro i civili. Nel contempo, imbarcazioni con a bordo altri terroristi si dirigevano da Gaza verso la spiaggia di Zikim per sbarcare e assaltare la base militare Bahad 4 dove vengono addestrate le reclute.  Nell’assalto sono stati utilizzati anche deltaplani a motore per superare il confine.  L’obiettivo era anche qui quello di neutralizzare i militari per poi dirigersi verso il kibbutz di Zikim. La corsa dei terroristi è però stata spezzata dai rinforzi israeliani. Nel contempo migliaia di razzi venivano lanciati in territorio israeliani nel tentativo di saturare il sistema di difesa Iron Dome.

Un elemento determinante di questa campagna terroristica, mai visto prima con Hamas, è la spettacolarizzazione dell’evento, con una serie di filmati diffusi dalla stessa organizzazione dove si vedono i terroristi che assaltano le abitazioni dei civili, sequestrano uomini, donne e bambini, umiliano anziani e sparano sulla gente. Sia per quanto riguarda il modus operandi e sia per l’utilizzo dei filmati a scopo propagandistico, Hamas stavolta sembra essersi ispirata all’ISIS, seppur in forma ancor più truce.

Obiettivi israeliani e non israeliani

Stavolta Hamas ha colpito tutti, israeliani e non-israeliani ed ha richiamato alla “resistenza” tutti i musulmani. Non a caso lo stesso 7 ottobre il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha dichiarato che “la lotta per la Palestina è la lotta di tutta la Ummah (comunità islamica mondiale)” e che “Hamas spera che i suoi alleati nel mondo islamico si uniranno alla battaglia”.

Nel contempo, il responsabile per i rapporti con la diaspora di Hamas (ed ex leader), Khaled Meshaal, invoca il “venerdì della rabbia globale” con cadenza settimanale, cercando così di infiammare le piazze internazionali e qualche risultato in effetti c’è stato: omicidi in Francia e in Belgio, un attentato all’ambasciata israeliana a Cipro, minacce alle comunità ebraiche, l’omicidio della rappresentante di una comunità ebraica nel Michigan, scontri tra manifestanti pro-Hamas e polizia in varie parti del mondo.

Un eccidio

Nella sua storia, iniziata a Gaza nel lontano 1987, Hamas ha sempre fatto ricorso agli attacchi contro i civili, oltre che nei confronti di militari e per un semplice motivo: perché per Hamas tutti gli israeliani fanno il servizio militare e possono essere richiamati se necessario, dunque non esistono civili. Quei pochi che vi possono essere, se colpiti, vanno considerati “vittime collaterali”. In aggiunta, sono comunque tutti coloni in quanto “occupano la terra di Palestina”. In sunto, si possono colpire tutti e del resto è ciò che Hamas fa ogni qualvolta lancia razzi verso il territorio israeliano.

La strategia di Hamas può essere riassunta in quattro tipologie fondamentali di attacco: lancio di razzi, attentati suicidi utilizzando uomini infiltrati in territorio israeliano, sequestri di persona (vedasi caso Gilad Shalit) e agguati a militari e civili.

Biglietto da visita dell’organizzazione terrorista palestinese è stato per molti anni l’ordigno esplosivo fatto detonare sui mezzi di trasporto israeliani ed alle fermate dei bus.  Questa tipologia di attentato prevedeva l’utilizzo di martiri disposti ad immolarsi nelle città israeliane e il suo ideatore, Yahya Ayyash, noto anche come “l’ingegnere”, venne indicato da molti in Israele come il suo ideatore. Quasi tutti gli ordigni utilizzati per le missioni suicide vennero costruiti da Ayyash, fino a che nel 1996 gli israeliani riuscirono ad eliminarlo.

Stavolta però Hamas ha perpetrato degli orrori senza precedenti. Nessuna organizzazione terrorista era mai arrivata a tanto. Non solo, perché Hamas ha anche perpetrato il più grosso eccidio di ebrei dai tempi dell’Olocausto.

Alcune considerazioni

L’aggressione perpetrata da Hamas lo scorso 7 ottobre richiede un’ingente preparazione, coordinazione, finanziamento ed anche addestramento di tipo militare che può aver acquisito soltanto da partner esteri e su questo ci sono ben pochi dubbi, con Israele che punta il dito contro l’Iran.

Del resto, sorge spontaneo chiedersi se Hamas stavolta abbia fatto il proprio interesse o quello di Teheran; ciò, in quanto il regime iraniano voleva sabotare in qualsiasi modo i negoziati in corso per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita (che andrebbero ad aggiungersi a quelle già effettuate con Emirati, Bahrein e Sudan), cosa temporaneamente riuscita. In aggiunta, si è anche creata una frattura tra mondo pro-Israele e anti-Israele; una specie di scontro tra Occidente filo-israeliano e Ummah islamica sostenitrice della causa palestinese.

Hamas al contrario si è trasformata da organizzazione tollerata sul piano internazionale (seppur al bando in UE, USA, UK, Canada e Israele) al nuovo ISIS. Qualcuno è addirittura arrivato a dire che Hamas è “estranea” alla storia del conflitto israelo-palestinese, come se ne “sporcasse” l’essenza, ma dimenticando che l’organizzazione terrorista palestinese svolge un ruolo di primo piano nel conflitto e fa strage di civili e militari dal lontano 1987. Del resto, fino a poco tempo fa il dominio di Hamas a Gaza veniva ancora giustificato con la vittoria elettorale del 2006 (e nonostante Hamas non avesse più indetto elezioni da allora), dunque è un po’ difficile farla scomparire a piacimento dalla scena.

A questo punto la domanda è: per quale motivo Hamas ha deciso di mettere in atto un’azione tanto orrenda e controproducente per se stessa?

Mettendo da parte per un attimo la già citata spinta iraniana, molto probabile ma che necessita di prove onde evitare situazione analoghe alle accuse sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, mai trovate, si può avanzare qualche altra ipotesi non necessariamente in contrasto con l’influenza da parte del regime khomeinista di Teheran.

E’ possibile che Hamas, consapevole di non poter affrontare Israele da sola, voglia presentarsi a mondo islamico come nuovo leader del jihad globale, consapevole del fatto che la causa palestinese unisce in maniera estremamente intensa la comunità islamica a livello mondiale, molto più di quanto hanno fatto la guerra siriana (che anzi, ha creato forti divisioni) e la campagna in Afghanistan. Un “salto di qualità” per cercare di riportare in primo piano una causa palestinese che sembra caduta nel dimenticatoio. La speranza è forse quella di unire alla causa Hezbollah, gli Houthi, la Siria, magari la Turchia, nonché di animare le piazze di Paesi come Egitto, Giordania e Arabia Saudita contro i propri leader accusati di non fare nulla contro Israele.

E’ altrettanto possibile che Hamas stia iniziando a riscontrare seri problemi nel controllare Gaza ed ha dunque bisogno dello scontro. Sono molte infatti le informazioni che indicano la crescente insofferenza della popolazione di Gaza per l’organizzazione terrorista, accusata di affamare la popolazione utilizzando gran parte delle risorse finanziarie per costruire armi e tunnel. Cosa ancor più interessante emersa durante degli interrogatori dello Shin Bet, è la sfilza di accuse fatte da alcuni operativi di Hamas nei confronti dei comandanti e della leadership. Alcuni hanno infatti lamentato alle autorità israeliane come i leader di Hamas vivano nel lusso all’estero mentre la gente muore a Gaza.

Un’altra ulteriore ipotesi è che Hamas sia andata oltre il proprio standard di attacco per costringere Israele a un’invasione di terra dove spera di farla impantanare massimizzando il numero di vittime tra i militari israeliani e magari facendo aprire un secondo fronte a nord da Hezbollah e l’esercito siriano. Un’eventualità già presa in considerazione dai vertici militari di Gerusalemme e potrebbe essere questa una delle ragioni dei ritardi nel passaggio alla seconda fase della campagna contro Hamas. E’ plausibilissimo che Israele si aspetti una sofisticata trappola ed abbia deciso di agire di conseguenza.

Utilizzando il paradigma sul terrorismo dell’esperto israeliano Boaz Ganor (terrorismo efficace = motivazione + capacità operativa), è possibile evidenziare come Israele si trovi a dover colpire al medesimo tempo i due fattori che alimentano l’attività terroristica, ovvero sia le capacità operative di Hamas, sia la motivazione dell’organizzazione. Anzi, stavolta l’IDF dovrà andare oltre e distruggerne la struttura. Ciò implica lo sradicamento della presenza di Hamas su Gaza e l’eliminazione della leadership. Operazione non semplice considerato che i terroristi sono radicati in loco da decenni ed hanno costruito un labirinto sotterraneo di tunnel, rifugi, depositi, possibilmente sotto infrastrutture civili come ospedali, scuole.

Secondo il paradigma precedentemente citato, un attacco nei confronti dei terroristi ne incrementa la motivazione (la sete di vendetta e la volontà di mostrare la propria forza a prescindere), ma senza potenzialità di attacco, non possono nuocere; queste potenzialità devono essere distrutte con l’attività militare.

Se la campagna militare dovesse però impantanarsi o fallire durante la seconda fase, ciò sarebbe un successo senza precedenti per Hamas che potrebbe così contare su un’altissima motivazione e sostegno internazionale da parte di chi ne condivide la causa. Il cosiddetto “effetto boomerang”.

Una cosa è certa, con i fatti del 7 ottobre si è oltrepassato il punto di non ritorno; Hamas è inevitabilmente il nuovo nemico. Questa settimana il Presidente francese Macron ha parlato di una coalizione internazionale anti-Hamas, come già effettuato a suo tempo contro l’ISIS.

Nella giornata del 26 ottobre gli Stati Uniti hanno reso noto che il Qatar avrebbe ipotizzato di rivedere i propri rapporti con Hamas alla fine delle trattative sul rilascio degli ostaggi, come riportato dal Washington Post.  Per Hamas questa è una battaglia campale ed anche per l’Iran che rischia di perdere il proprio proxy. Israele dal canto suo deve fare una sola cosa a questo punto, cancellare Hamas dal Medio Oriente, come già dichiarato più volte dai vertici dello Stato ebraico.

Il conflitto si ripercuoterà anche sull’Europa ovviamente; i segnali ci sono tutti ed è solo questione di tempo. Il passaggio ad una seconda fase inasprirà lo scontro a livello internazionale.  Si sarebbe certamente potuto agire ben prima su Hamas, ma non è stato fatto. I flussi di denaro provenienti dal Qatar non hanno migliorato la vita dei civili palestinesi, come alcuni credevano (incluso il governo Netanyahu), ma soltanto rafforzato Hamas; la vittoria elettorale non ha affatto democratizzato Hamas, ma l’ha resa soltanto più dispotica.