Terremoto Centro Italia fra una narrativa pseudo resiliente e una reale disaster economy – by Barbara Lucini

Il terremoto che ha colpito il centro Italia lo scorso mercoledì 24 Agosto, devastando interi paesi presenta una importante novità per la narrativa dei disastri, che ha il sapore di una azione resiliente molto studiata ed in linea con una attuale modalità comunicativa istituzionale: l’enfasi posta sulle persone estratte vive dalle macerie.

Negli altri terremoti infatti, non vi è stata mai un’attenzione così assillante nell’aggiornare i dati dei dispersi, delle vittime e delle persone salvate.

All’apparenza potrebbe sembrare una modalità narrativa per incentivare l’enfasi e la grande emotività su aspetti positivi e ottimistici di una situazione di per sé drammatica, in realtà la costruzione e l’utilizzo di tale metodo riflette la necessità ossessiva di bilanciare un numero assurdo di morti nel 2016 in Italia causa terremoti.

Se è vero, e lo ritengo tale, che i terremoti e la gestione delle loro conseguenze sono istantanee di una Nazione, si può dire che poca resilienza si è fatta vedere.

E’ semplicemente crollato tutto: dalla scuola di Amatrice, che tristemente ricorda il dramma del Molise nel 2002 appena accennato nei primi servizi, ma poi appunto sapientemente sostituito con il numero dei salvati, alle infrastrutture della viabilità, all’ospedale, alle chiese. Tutto.

Quello che adesso emerge, a parte le difficoltà logistiche che sono presenti in quelle zone dove le frazioni di ogni singolo Comune sono innumerevoli e le tendopoli vengono allestite in ogni frazione moltiplicando gli sforzi di gestione e organizzazione, è l’assenza di qualsivoglia applicazione della normativa antisismica e cosa ancora più grave dell’utilizzo di fondi pubblici per la ricostruzione di edifici già danneggiati dai precedente terremoti in Umbria – Marche del 1997 e a L’Aquila 2009.

In un Paese che annaspa quotidianamente per un’economia che non riparte, per un tasso di disoccupazione fra i più alti in Europa unito ad una persistente e disarmante decrescita dei livelli di scolarizzazione, ciò che emerge da questa polverosa fine di Agosto è una massiccia presenza di disuguaglianza sociale e di accesso alle risorse economiche da parte dei vari gruppi sociali che compongono la popolazione.

Contributi erogati a macchia di leopardo ed utilizzati spesso in funzione della connivenza e del supporto di organizzazioni dedite alla criminalità organizzata sono il filtro attraverso il quale la gestione del post terremoto e la ricostruzione possono avvenire per la maggior parte delle volte.

E’ successo meno o per nulla per il terremoto di Umbria – Marche del 1997, perché molti cittadini delle piccole frazioni si sono costituiti cooperative e hanno deciso loro a quale imprese autorizzare i lavori di ricostruzione, prima ancora che si parlasse di civic engagement o grassroots approach: è successo perché l’interesse reale delle persone coinvolte era ricostruire le proprie abitazioni, sulla loro terra, vicino alle loro attività lavorative, ma non potrà succedere quando di fronte ad interessi più che legittimi verranno anteposti speculazioni edilizie.

Prove ve ne sono, molto evidenti anche a L’Aquila, dove per lo meno un anno fa una delle scuole elementari della città era stata puntellata con quattro file di pali perché i singoli nodi costavano 15 euro l’uno e quindi erano un affare per l’impresa vincitrice dell’appalto.

Si ricorda inoltre a questo proposito un bel approfondimento de L’Europeo[1]proprio focalizzato sul business dei terremoti de L’Aquila, dell’Irpinia, del Friuli, del Belice e di Messina, con una particolare scelta editoriale: l’assenza dei terremoti di mezzo ovvero quelli dell’Umbria- Marche 1997 e del Molise 2002 in seguito al quale morirono 27 bambini, per mancanze strutturali nella costruzione della scuola, considerando però che a quel tempo la zone colpita del Molise non era stata classificata a elevato rischio sismico.

Ed in questo contesto così ambivalente e politically correct, dove invece ciò che manca è proprio la correttezza, è impressionate leggere le informazioni contenute nel piano di emergenza comunale di Amatrice nel quale anche a seguito dell’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20 marzo 2003 si classifica il Comune di Amatrice e le sue frazioni come esposte a elevato rischio sismico.

Inoltre in un altro passaggio si legge: Si deve rilevare altresì che l’edilizia abitativa e non del territorio comunale è per lo più risalente all’Ottocento e ristrutturata con vari interventi risalenti al Novecento, gli interventi in cemento armato e la sua diffusione è sicuramente riconducibile agli interventi realizzati dopo il 1960 pertanto il rischio sismico è alto lo testimonia i danni riportati dall’edilizia pubblica e privata causati dal sisma del 1979 e da ultimo del 2009 che interessò la città dell’Aquila. Senza dubbio la tipologia costruttiva (muratura portante in pietrame locale) influenza in maniera determinante la vulnerabilità degli edifici esistenti con potenziali rischi per la popolazione in soprattutto nei piccoli borghi e anche nel Capoluogo caratterizzati da vie strette senza slarghi.

Poche righe, per una efficace immagine della storia italiana nel campo dell’edilizia, dal boom abitativo e costruttivo degli anni ’50 e ’60 alle speculazioni edilizie sia pubbliche sia private degli anni ’70 e ’80 fino ai giorni nostri.

Non c’è memoria collettiva e non c’è resilienza in un approccio al rischio di questo tipo, nel portare bambini inconsapevoli ad abitare edifici ad elevato rischio, nell’usufruire di servizi pubblici in luoghi a rischio, nell’attraversare viadotti a rischio.

C’è ancora molta moltissima strada da fare, soprattutto per estirpare -una volta per tutte- i tentacoli dei vari gruppi di criminalità organizzata dalla gestione legittimata -con bandi e gare di appalto- della risposta al disastro, che sempre più frequentemente erodono il vivere  nel post-disastro e la tanto agognata prevenzione.

E il numero delle persone estratte vive dal cumulo delle macerie di questo sistema e di questa cultura ce lo ricorda, così come il numero alto – troppo – dei morti.

[1] L’Europeo, Il Business dei terremoti, n° 10, Ottobre 2010