La pace in Medio Oriente dipende da Olmert e lui da una sentenza – by Giovanni Radini

Tutto dipende da Olmert. O meglio dai numeri di cui dispone il suo governo alla Knesset e dalle decisioni della magistratura israeliana. Dopo il summit di Annapolis, a novembre 2007, si era detto che il 2008 sarebbe stato “l’anno della pace” per israeliani e palestinesi. Ancora oggi però di questo obiettivo non si vedono i risultati. Il processo di pace in Medio Oriente sta vivendo una fase di  impasse. Certo, l’elezione di Michel Suleyman e l’apparente riapertura del dialogo tra Israele e Siria, in merito al “nodo Golan”, risultano indiscutibilmente in controtendenza alla situazione generale. Tuttavia è l’auspicato dialogo israelo-palestinese il cuore del problema. E questo ristagna non soltanto per le avversioni dei “falchi” di ambo le parti a raggiungere un compromesso. Ma soprattutto perché è schiavo della debolezza del governo israeliano. Il processo di pace quindi non va avanti per un motivo essenzialmente a sé estraneo.


In queste ultime settimane infatti il Premier israeliano è stato sottoposto a lunghissimi interrogatori, da parte delle autorità giudiziarie di Tel Aviv. Il sospetto è che, tra il 2003 e il 2006, in qualità di ministro dell’Industria e del Commercio, Olmert abbia agevolato la concessione di appalti per progetti governativi in favore di Morris Talansky, uomo d’affari ebreo-americano. L’inchiesta fa seguito a pendenze di corruzione precedenti e mai chiarite, che risalgono a quando Olmert era sindaco di Gerusalemme. È vero che l’indagine non ha ancora portato il rinvio a giudizio. D’altro canto lo stesso Premier ha fatto sapere che, nel caso fosse indagato, rinuncerebbe al suo mandato. Così facendo porterebbe il Paese alle elezioni anticipate.
In realtà la maggioranza di governo per Olmert era risultata minima già al momento della sua elezione, nel marzo 2006. Due anni fa Kadima, il nuovo partito fondato da Ariel Sharon, riuscì a ottenere la leadership del Paese solo grazie all’alleanza con i laburisti e con le due formazioni più intransigenti e contrarie al dialogo con l’ANP di Abu Mazen, Yisrael Beitenu e Shas. Da allora, proprio in seguito al progresso nei colloqui con i palestinesi, la maggioranza iniziale (78 sui 120 membri totali della Knesset) si è ridotta a soli 67.
Oggi il rischio è che lo stesso ministro della Difesa, Ehud Barak, abbandoni Olmert, portandosi via i 19 deputati laburisti. L’intenzione di Barak sarebbe quella di sfruttare le indagini che gravano su Olmert – sostenendo che i laburisti non possono far parte di un esecutivo sospettato di corruzione – e candidarsi a sua volta come nuovo Primo ministro.
Il problema però è che tutti quei governi che si sono dichiarati favorevoli al processo di pace così com’è stato definito ad Annapolis hanno scommesso su Olmert. Perché solo quest’ultimo si è dichiarato sinceramente disponibile a trattare in merito alle questioni più spinose con l’ANP: l’eventuale status di “doppia capitale” per Gerusalemme, lo sgombero o meno degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, la possibile liberazione di alcuni prigionieri palestinesi – tra cui il carismatico esponente di al-Fatah, Marwan Barghouti – e il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Proprio la volontà di confrontarsi con i palestinesi in merito a questi temi, nel corso del summit degli Usa nel novembre 2007, ha permesso a Olmert di guadagnarsi la credibilità della comunità internazionale.
Ma il confronto ora è bloccato, come in una sorta di “fermo-immagine”, per l’instabilità interna di Israele. Il rischio è che il Premier cada e al suo posto salga un esponente di quella vasta rappresentanza di politici israeliani contraria al processo di pace. Attualmente sarebbero quattro i competitor che attendono Olmert al varco e che, senza darlo così tanto a nascondere, ne auspicano l’impeachment. Barak, come detto,  vorrebbe  tornare  alla  guida  del  Paese,  adottando  una  linea  ben  più intransigente, dando il via a una massiccia operazione militare nella Striscia di Gaza. A questo fa da eco Benjamin Netanyahu, classificato come ancor più intransigente di Baraq.
Tuttavia entrambi presentano due grossi punti deboli, che riducono sensibilmente le loro possibilità di vittoria nell’eventualità che Israele vada alle elezioni. Prima di tutto sia Barak sia Netanyahu sono già stati Premier e il loro mandato – peraltro molto recente – non viene ricordato con favore dall’opinione pubblica israeliana. Quest’ultima infatti, dopo sessant’anni di guerre, ha lanciato più volte segnali di stanchezza di vivere nel continuo terrore e di desiderio di giungere, una volta per tutte, alla pace. E anche per questo un intervento di grande portata a Gaza – a due anni dalla non proprio vittoriosa guerra in Libano – fa emergere tutte le perplessità in merito a un nuovo impegno bellico da parte di Israele. E di conseguenza smonta una buona parte della propaganda di Barak e Netanyahu.
Come secondo punto va ricordato il sostegno che Washington continua a esprimere nei confronti di Olmert. Bush in prima persona ha investito notevoli quote politiche in favore di quest’ultimo. L’attuale inquilino della Casa Bianca vuole andarsene incassando i punti di Annapolis e passando così alla storia non come il presidente della “guerra in Iraq”, bensì come il fautore della pace tra israeliani e palestinesi. Così facendo, inoltre, rinforzerebbe le possibilità di vittoria di John McCain alle presidenziali di novembre e quelle di un terzo mandato repubblicano alla Casa Bianca.
Ecco perché molto più interessanti risultano le chance a disposizione del ministro dell’Interno, Avi Dichter, e di quello degli Esteri, Tzipi Livni. I due esponenti di Kadima e membri dell’attuale esecutivo sono entrambi più giovani di Barak e di Netanyahu, sono due volti tutto sommato nuovi, ma soprattutto hanno alle spalle un passato nello Shin Bet e nel Mossad. Questo li rende preparati politicamente e tecnicamente nella materia di governo più delicata in Israele: la sicurezza.
Il caso della Livni poi è ancora più particolare. La durezza caratteriale di questa signora è proverbiale. Tuttavia, la Livni ha già dimostrato una sorprendente duttilità. Per esempio ha avuto coraggio nel distinguere i palestinesi che combattono per la loro causa dal fenomeno del terrorismo globale. La Livni non ha voluto generalizzare, evitando di fare delle tante crisi mediorientali un blocco unico di cieca violenza. Sicché non è una coincidenza che la sua figura e le sue ambizioni siano state paragonate a quelle di un’altra protagonista della storia di Israele, Golda Meir. Ma è anche vero che proprio il fatto di essere donna può tornare a discapito della Livni, in un Paese dove le forze estremiste religiose – che la Meir a suo tempo non aveva dovuto fronteggiare – sono sempre più influenti e con loro bisogna fare i conti alla Knesset.
Olmert quindi si trova di fronte a quattro assi, con più o meno valore. E per evitare che questi lo intralcino ha impostato una rotta ancor più difficile di quella prevista nel post-Annapolis. Ha ridotto la sua disponibilità a trattare con l’ANP – approfittando dell’altrettanto debolezza sofferta da Abu Mazen – ha incentivato l’espandersi degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e ha intensificato i raid su Gaza. Mossa, quest’ultima, dettata anche dall’intensificarsi dei lanci di razzi Qassam su Sderot e Ashkelon da parte dei gruppi palestinesi attivi nella Striscia. Una nuovo linea dura, in generale, giustificata dalla necessità di conservarsi l’appoggio dell’opinione pubblica interna.
D’altra parte è dalla magistratura israeliana e dalle sue decisioni che dipende non solo il futuro del Paese, ma quello del dialogo con l’ANP. Il bivio è netto. Da un lato, c’è l’impeachment per Olmert, che segnerebbe davvero la sua fine politica e metterebbe nuovamente in discussione l’intero processo di pace. Dall’altro l’eventualità di insabbiare temporaneamente l’inchiesta,  in attesa che il Premier concluda con un risultato positivo il suo incarico, per poi relegarlo alla storia.
A differenza delle percezioni interne all’elettorato israeliano, ma soprattutto ai giochi di potere che caratterizzano anche la knesset, ciò che più sta a cuore ai popoli del Medio Oriente, come a tutta la comunità internazionale, non è la trasparenza di Olmert, bensì chiudere definitivamente il contenzioso tra Israele e ANP. Raggiungere un accordo tra questi due significherebbe innescare un meccanismo di pace, da una parte, e di isolamento di tutte le frange più estremiste, dall’altra. Il reciproco riconoscimento, la fine delle violenze e la convivenza tra israeliani e palestinesi indebolirebbe sensibilmente chi non vuole la pace. Hamas, Jihad islamico- palestinese, Fatah al-Intifadah, al-Saika e tutti coloro che vorrebbero risolvere il problema manu militari, piuttosto che con la politica non avrebbero più ragion d’essere. Lo stesso Iran pagherebbe le ripercussioni di un accordo di pace. Tutto questo però sembra dipendere dal destino di un uomo al potere.