Israele si gioca il tutto per tutto – by Giovanni Radini

Mazal tov signora Livni! Con la vittoria ottenuta nelle primarie di Kadima e le successive dimissioni di Olmert, sta al Ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, far uscire il Paese dalla ennesima crisi politica e formare un nuovo governo, capace di mantenere aperto il dialogo con i palestinesi, sulla base dei buoni propostiti espressi al summit di Annapolis nel novembre 2007.


La Livni Primo ministro in pectore è la realizzazione di una previsione che molti avevano avanzato già all’inizio dell’anno. D’altra parte, il successo di misura ottenuto nel testa a testa con Shaul Mofaz e la prospettiva di andare alle elezioni anticipate rendono consapevole Israele che, effettivamente, i problemi cominciano ora, in questa nuova fase di instabilità interna che, per forza di cose, rischia di incidere sulla politica estera del futuro esecutivo.
In molti hanno scommesso sulla Livni. Prima di tutto perché donna – sulla base del precedente di Golda Meir – poi perché politicamente figlia di un “pezzo da novanta” quale è stato l’ex premier Sharon e, infine, perché sinceramente convinta a portare avanti il processo di pace. Lo si è visto nel modo in cui ha guidato la rappresentanza israeliana negli incontri con gli omologhi dell’Anp, in questi ultimi mesi. Ma anche nel suo “nulla osta” affinché si aprissero i negoziati con la Siria. Passaggi importanti, questi, ai quali però si contrappongono i rumor di aver a che fare con un personaggio di relativa incisività e spesso indecisa nelle situazioni di crisi. Esemplificativo è stato come, durante la guerra contro Hezbollah nel 2006, il già allora capo della diplomazia avesse subito passivamente l’emarginazione e praticamente non avesse avuto alcuna possibilità di intervenire nella conduzione del conflitto.
Insomma, Tzipi Livni, orgogliosa figlia di militanti dell’Irgun e lei stessa ex agente del Mossad a Parigi, sarà capace di formare il governo adatto per portare avanti il processo di pace e, contemporaneamente, mantenere in vita l’ambizioso progetto politico centrista di Kadima, al quale Sharon aveva dedicato le sue ultime forze?
In un momento come questo, con i colloqui di pace che non sono mai andati così tanto avanti, bisogna che la nuova leader di Kadima abbia successo. Ma per questo è necessario che la stessa sfoderi tutta la sua capacità di diplomatica e politica. Sia in ambito interno, sia di fronte al mondo arabo.
Bisogna che ricostruisca, con meticolosa cautela, la coalizione che ruotava fino a ieri intorno a Olmert. Il Partito laburista di Ehud Barak si è già dichiarato pronto a partecipare a un nuovo esecutivo di unità nazionale. In questo caso, i suoi 19 parlamentari andrebbero ad allearsi con i 29 di Kadima. Il Partito dei Pensionati, a sua volta – 7 rappresentanti alla Knesset – non dovrebbe porsi d’ostacolo. I problemi però potrebbero sopraggiungere se nei colloqui di pace si parlasse del “nodo Gerusalemme”. I partiti di destra dello Shas (12) e di Ysrael Beitenu (11), che avevano appoggiato Sharon prima e Olmert poi, considerano la “città santa” l’unica e indivisibile capitale dello Stato di Israele. Per entrambi, quindi, sarebbe inaccettabile che Gerusalemme diventasse merce di scambio per la pace. E se questo dovesse accadere, è probabile che abbandonerebbero la maggioranza di governo. A sua volta, il rischio più immediato di una simile eventualità sarebbe che Israele vada alle elezioni anticipate, che queste le vinca l’intransigente Likud di Netanyahu – notoriamente contrario al dialogo con i palestinesi – e che, infine, tutti i risultati del dialogo per la pace sfumino.
Medesimo livello di rischio in ambito diplomatico. A un’Israele instabile da un punto di vista governativo, si contrappone un Abu Mazen da sempre in debito di popolarità. Il processo di pace rappresenta per al-Fatah un aut aut tra la riaffermazione della propria supremazia in seno al popolo palestinese e l’annientamento politico in favore di Hamas, anch’esso in difficoltà, ma ben più forte in seno all’opinione pubblica. Naturale, quindi, che Israele e Anp si sostengano reciprocamente. Se vogliono sopravvivere e concludere positivamente gli accordi, devono procedere a forza di compromessi e riconoscimenti reciproci.
Per quanto riguarda la Siria, il confronto per arrivare alla restituzione del Golan da Israele alla Siria – e la rottura da parte di Damasco della alleanza con l’Iran e dell’appoggio a Hezbollah e Hamas – è appena cominciato. Se questo dovesse saltare, lo scenario potrebbe non escludere nuovi scontri.
Resta infine l’incognita iraniana. Su un possibile raid israeliano ai centri di ricerca nucleare del regime di Teheran si è scritto e ipotizzato di tutto. In questo senso, l’auspicio è che i nuovi vertici di governo e delle Forze Armate a Tel Aviv abbiano maggior lungimiranza e senso pratico rispetto a coloro che tentarono di annientare le milizie sciite in Libano nel 2006 e che, invece, da queste furono costrette a ripiegare.
Da Annapolis a oggi non si è mai stati così vicini a risolvere un problema aperto dalla fine della seconda guerra mondiale, la guerra tra israeliani e palestinesi. Ma è proprio in questi momenti che i rischi sono elevatissimi. Gli errori, le distrazioni e i cambiamenti di conducente a treno in corsa possono provocare di tutto, anche far saltare il banco. Per questo alla Livni non è concesso sbagliare.